Un po’ di magone è comprensibile. Si è appena concluso uno dei migliori Slam degli ultimi anni, che già aveva appassionato e divertito prima di andare in congedo con una conclusione degna del più brillante sceneggiatore. Non si può che immaginare questo misterioso demiurgo, uno e trino come in una fortunata serie TV italiana (che peraltro porta il nome di un tennista), muovere i fili del torneo per confezionare un finale così atteso che avevamo persino dimenticato fosse possibile. Non si tratta di retorica, è che proprio la prospettiva di rivedere Federer e Nadal giocarsi uno Slam non appariva realizzabile, stritolata dalla tirannia dei tempi e sballottata alla periferia delle nostre aspettative dai percorsi alterni delle due carriere. L’uno destinato, sembrava, ad essere ormai competitivo soltanto sull’amata terra rossa, l’altro impegnato a cerchiare ossessivamente – in verde – sul calendario una data della prima settimana di luglio. E non potendosi dare appuntamento né sul verde né sul rosso hanno deciso per il compromesso del blu. Che l’accordo sia nato nel meeting autunnale di Manacor alla Rafa Nadal Accademy, quando il canonico “Ma se facessimo due palleggi?” si era infranto, tra una risata e l’altra, contro gli acciacchi di entrambi?
In effetti i viali che hanno condotto i due a incrociare le racchette in finale si somigliano parecchio. Cinque set persi ciascuno, uno Zverev eliminato a testa, quarti e semifinali superati in modo speculare: le vittorie in tre set ai danni di Mischa e Raonic, le battaglie contro Wawrinka e Dimitrov. Il bulgaro era persino andato parecchio vicino a far saltare l‘appuntamento. Avrebbe potuto servire per l’incontro convertendo una delle due palle break sul 4-3 del set decisivo. Ma il frastuono assordante e velatamente machiavellico della Rod Laver Arena, impegnata a sostenere Nadal perché quel sogno si avverasse, ha ridestato il maiorchino favorendone il colpo di coda. Non è stato mica giusto bistrattare così il povero Grigor, quella sera coraggioso come non mai, meraviglioso nel suo infischiarsene di ciò che avrebbe sottratto al mondo intero, mica solo quello del tennis. E proprio il fatto che la resa dei conti di domenica sia giunta nonostante tutto l’ha contornata di significati extra. Ove fosse possibile, per il Fedal numero 35. Gli ultimi cinque set non vanno certo raccontati ancora, è stata una storia di controbalzi inverosimili e di rovesci che in teoria dovevano essere i punti deboli e invece hanno deciso il torneo. Net e falchi un po’ schierati per l’occasione, iconica e di un bello che non si può descrivere l’espressione di Rafa al momento del challenge chiesto sul punto che ha consegnato la coppa al suo avversario.
La delusione istintiva che si aggrappa all’ultimo appiglio per cercare di evitare la sconfitta convive con la verve un po’ adolescenziale di chi sembra dirsi “Pazienza, ci provo, ma ormai ho perso. Sarà per la prossima”. A fine partita Roger confesserà che, avesse avuto un alfiere da muovere piuttosto che una pallina da colpire, avrebbe accettato la patta. Il tennis era mai sembrato così in armonia? Va detto, la vittoria dello svizzero ha oliato tutti i meccanismi dell’etica sportiva. È stato il classico avvenimento dopo il quale tutto sembra straordinariamente perfetto. L’avesse spuntata Rafa, e sarebbe potuto accadere senza scandali visto l’andamento dell’incontro, l’aria avrebbe forse avuto un peso differente. Nell’economia della rivalità il trionfo spagnolo è spesso stato visto come routine ed è fisiologico che in molti attendessero la rivincita dell’elvetico. L’attesa per il diciottesimo di Roger, poi, aveva sovrastato qualsiasi altra prospettiva. Federer l’ha vinta con quel coraggio e quella proiezione offensiva che spesso gli avevano fatto difetto contro Nadal, e per via di una migliore attitudine del suo gioco all’invecchiamento. Oltre che per una certa dose di malizia che molti suoi fan gli avevano in passato consigliato di adottare: ne sono prova il MTO chiesto prima del quinto parziale e la politica di gestione delle energie, più matura, con il miglior tennis concentrato quando e dove serviva nell’arco della partita. Lui fa il furbetto e dice che il pareggio sarebbe stato giusto… ma i pezzi non erano certo stati mossi per ottenere la “patta”. E viva Dio. A tennis qualcuno deve pur vincere.
Sarà difficile crederci ma è esistito anche un altro torneo. Nel quale Djokovic ha scelto di abdicare contro Istomin e il n.1 Murray non ha sfruttato l’assist facendosi assalire dal fioretto di Mischa Zverev, il cui exploit rimane una delle migliori storie da ricordare. Ma c’è stato di che divertirsi ad ogni turno. Al primo Karlovic e Zeballos hanno dimenticato l’arte del break in un match da record, il secondo ha visto – oltre all’uscita di Nole e alla splendida vittoria di Seppi su Kyrgios – la debacle di Cilic contro Daniel Evans, protagonista di uno swing australiano di gran livello. Al terzo turno il clou è stato Zverev-Nadal, col piccolo Sascha che non si farà battere dai big ancora per molto tempo, o almeno così pare. Gli ottavi di finale sono stati nobilitati dai cinque set tra Federer e Nishikori, quando ancora in pochi eletti credevano che Roger potesse davvero arrivare in fondo. Il resto è storia di cui abbiamo parlato. Gli italiani? Lorenzi ha ceduto con onore a Troicki, Fognini dopo aver demolito Lopez si è fatto attirare nella trappola di un match folle contro Paire e ci si è perso. Ah, la pattuglia dei super-giovani è arrivata compatta al secondo turno dove si è polverizzata. De Minaur, Khachanov, Rublev, Bublik, Rubin e Tiafoe ci riproveranno, nel frattempo hanno iniziato a farsi le ossa.
Anche il lato WTA della faccenda si è vestito di… leggenda. Serena Williams ha raggiunto quota 23 Major e non in una partita qualunque: in finale ha sconfitto sua sorella Venus. Le due sono tornate a contendersi un titolo dopo 8 anni pur non offrendo uno spettacolo particolarmente edificante. Finale molto nervosa, con Serena sempre in controllo della situazione ma in qualche modo “distratta” dai risvolti familiari della contesa, come non di rado è accaduto nel corso di una rivalità che nei fatti non è mai esistita. E ci si chiede infatti se le due non fossero state sorelle come sarebbe potuta andare. Sul cammino di Serena le insidie sono state davvero poche: nessun set perso e pochissime situazioni di difficoltà. Una superiorità schiacciante con tanto di ritorno in vetta al ranking. Il torneo di Venus è stato invece più appassionante, con il culmine nella rimonta in semifinale ai danni di Coco Vandeweghe. Coco è stata la mina vagante delle due settimane. Dopo aver sudato per liberarsi di una Bouchard che pare sulla via del recupero ha eliminato in totale surplace la (ex) n.1 Kerber e la n.7 Muguruza. Angelique ha iniziato il 2017 con le marce basse e i prossimi mesi ci diranno se la sua sarà una discesa progressiva o riuscirà a mantenersi a ridosso di Serena.
Hanno deluso anche Halep (fuori al primo turno contro Shelby Rogers) e Radwanska, eliminata da Mirjana Lucic-Baroni. La croata classe ’82 è stata senza dubbio la favola del torneo femminile. Aveva vinto qui a Melbourne una sola partita 19 anni fa. Quasi l’età di Zverev, per intenderci. Quest’anno ne ha vinte cinque tutte in fila prima di imbattersi nell’implacabile signora che viaggiava spedita verso la conquista del trofeo. Un meraviglioso ritorno scandito dalla sua grinta e da una risposta di rovescio tremendamente aggressiva che ci ha ricordato quando nel 1999 Mirjana, all’epoca grande promessa del tennis femminile, aveva rischiato di battere la solenne Steffi Graf sui prati di Wimbledon. Proprio Lucic-Baroni, tornando al torneo, si è occupata di eliminare una Pliskova che sembrava parecchio lanciata (dopo essere sopravvissuta al piccolo ciclone Ostapenko). Karolina deve ancora limare qualche limite di personalità sul campo. Ha poco da recriminare invece Johanna Konta, pressoché perfetta sin quando – ma sicuri ne abbia vinte solo sette di partite? – si è trovata di fronte Serena Williams. Ma Johanna e Karolina tornerà certamente a dire la loro sul cemento americano.
Insomma, è stato un Australian Open che ci consegna il totale divieto di esprimere lamentale. Insieme epico e sorprendente, fresco eppure dominato dai vecchietti. Quello di Melbourne conferma di essere spesso e volentieri lo Slam più godibile, per quanto questa volta abbia voluto fare davvero le cose in grande. Sembra anche una questione di colori. Sarà la tenacia del sole down under che conferisce al blu dei campi uno splendore che ogni volta profuma di novità, sarà che tutti ci arrivano con la voglia di iniziare al meglio la stagione, sarà che questa volta il plexicushion si è dimostrato così rapido da permettere il ritorno degli artisti del tennis verticale e sparigliare un po’ le carte. E poi, ha fatto incazzare parecchio i due numeri 1, oltre a Djokovic. Ce li aspettiamo tutti e tre belli motivati a Parigi. Mentre Melbourne la ritroveremo tra dodici mesi. Ed è impossibile che almeno una volta durante la stagione non ne sentiremo nostalgia.