Il tennis, lo sport del diavolo

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Il tennis, lo sport del diavolo

A volte anche episodi marginali possono influire sull’andamento di un match. L’ha sperimentato a sue spese Anett Kontaveit

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Con il day 6 di Wimbledon si è concluso il terzo turno, e ci si avvia alle partite decisive del torneo. Nell’unico match che vedeva una contro l’altra due teste di serie, Radwanska e Bacsinszky, Aga ha avuto la meglio alla distanza, rispettando così le indicazioni del ranking. Anche le altre teste di serie hanno confermato le gerarchie di classifica, sconfiggendo tutte le avversarie fuori dalle prime 32 del tabellone.
C’erano poi due match fra giocatrici non comprese fra le teste di serie, vinti da Rybarikova e Martic. Al termine delle partite di oggi questa è la situazione della parte alta del tabellone:

Kerber (1) vs Muguruza (14)
Radwanska (9) vs Kuznetsova (7)
Martic (Q) vs Rybarikova
Vandeweghe (24) vs Wozniacki (5)

A cose fatte si può dire che sia stata una giornata senza sorprese, ma in realtà sia Kerber che Wozniacki hanno rischiato seriamente l’eliminazione. Ho seguito solo parte del match di Angelique, ma ho visto i passaggi decisivi del secondo set, quando se l’è vista brutta con Shelby Rogers avanti 6-4, 4-2. E in quei frangenti per alcuni quindici ho rivisto la Kerber mai doma che insegue e recupera tutto, anche le palle che sembrerebbero completamente fuori portata. E le raggiunge. Alla fine Angelique ha prevalso per 4-6, 7-6(2), 6-4.

 

Bisogna tenere presente che in questo Wimbledon Kerber gioca per due obiettivi: la vittoria nel torneo e il mantenimento del numero uno del mondo. Allo stato attuale, però, la numero uno virtuale rimane Karolina Pliskova, mentre la seconda favorita è Simona Halep. Per superare Pliskova, Halep deve vincere almeno due partite, mentre Kerber tre. Se per caso arrivassero entrambe in finale si avrebbe la soluzione più semplice e diretta: numero uno a chi vince il torneo.
Dicevo che oltre a Kerber ha rischiato anche Wozniacki, ma alla fine è riuscita a spuntarla, anche lei in tre set (3-6, 7-6(3), 6-2). Confermando dunque il pronostico dei bookmaker e smentendo il mio, che avevo espresso nell’articolo di ieri.

Caroline si è trovata ancora più vicina alla sconfitta, per la precisione a due soli punti contro Anett Kontaveit, che ha servito per il match portandosi 6-3, 5-4, 30-0.
A proposito di Kontaveit: prima di questo Wimbledon non l’avevo mai vista dal vivo e mi ha fatto una grande impressione. Dovessi scegliere la giocatrice che mi sorpreso di più nella prima settimana sceglierei lei. L’ho seguita nei suoi tre match (non sempre per intero), da posizioni di campo differenti. E mi sono reso conto che gioca un tennis più difficile di quello che appare dalle riprese televisive. Infatti non sempre dalla TV si capisce quanto margine ci sia tra la parabola della palla e la rete. Ebbene, quando Anett accelera, le sue traiettorie sono costantemente radenti al nastro. Del resto colpendo con poco topspin, se passasse più alta sulla rete finirebbe irrimediabilmente lunga. Spingere così tanto con così poco margine è davvero complicatissimo, tanto che mi chiedo se con un tennis del genere riuscirà a gestire anche i periodi di forma meno scintillante, senza andare incontro a drastiche cadute nei risultati.

Pensavo a questo durante il suo terzo set, quando il difficile meccanismo del suo gioco aveva cominciato a incepparsi. Il momento della svolta è stato proprio quando Kontaveit ha servito per il match avanti 6-3, 5-4, 30-0. Sullo scambio del possibile 40-0, con un incisivo dritto incrociato aveva spinto verso il corridoio Wozniacki. A quel punto uno spettatore ha gridato come se il punto fosse già terminato e vinto, e invece Caroline ha agganciato la palla con un dritto in chop e l’ha rimessa in campo con una lenta parabola difensiva. Kontaveit, probabilmente distratta dall’urlo, per un momento ha perso di vista la situazione; invece che concludere lo scambio con un possibile vincente, si è quasi bloccata e ha goffamente spedito nel mezzo della rete il rovescio successivo.
In questi casi è difficile dimostrare certe sensazioni, ma l’impressione che ho avuto sul momento è che Anett fosse stata destabilizzata perfino oltre il logico: non solo per quel quindici ma per tutto il resto del game. Come se quell’urlo (probabilmente di un suo tifoso) avesse rotto la bolla di concentrazione dalla quale era rimasta avvolta per tutto il match. Da lì in poi ha perso altri tre punti consecutivi, e Wozniacki ha pareggiato sul 5-5. Il resto lo potete leggere nella cronaca che ho fatto della partita.

Il vantaggio di essere inviato sul posto è che a volte si possono risolvere certe curiosità chiedendo direttamente ai giocatori. Allora sono andato alla conferenza stampa di Kontaveit, che si teneva in una delle piccole stanze che vengono utilizzate quando sono previste poche persone. Oltre a me c’erano due giornalisti danesi e uno estone. Anett è arrivata da sola, e sembrava piuttosto provata dalla sconfitta. Fisicamente e moralmente. Del resto perdere così a Wimbledon non è come perdere al primo turno di un torneo qualsiasi.

Dopo un inizio generico sul match, ci pensa uno dei giornalisti danesi a fare la domanda che altrimenti avrei posto io: “Cosa è successo sul 5-4 30-0?” Anett non risponde subito. Si ferma, e attende per un momento. Poi per un altro momento; come se rivedesse la scena e temesse di iniziare nel modo sbagliato a commentarla: “Qualcuno dalla folla ha gridato”. Pausa. “Ed è stato piuttosto distraente”. Altra pausa. Dopo questo inizio incerto, la sensazione è che abbia finalmente trovato il modo che la soddisfa di commentare l’episodio, e torna a parlare sciolta: “In ogni caso non posso farmi infastidire (usa il verbo “to bother”) da un fatto del genere; deve servirmi da lezione per il futuro. Devo imparare a gestire certe “nuove situazioni” (e lo dice accompagnandolo con un sorriso amaro e ironico).

Superato questo momento, Anett risponde a tutte le domande in modo più spedito, con le idee molto chiare. Dice anche, secondo me, una piccola bugia, quando le chiedo se il risultato del terzo set è dipeso più da un calo fisico o mentale. Lei nega qualsiasi calo psicologico e attribuisce solo alla parte fisica il minor rendimento. Ma la risposta non mi sorprende: è rarissimo che un tennista riconosca di avere avuto debolezze mentali, perché per un atleta professionista è difficile ammettere che l’avversario è stato più forte “di testa”.
Quando si dice che il tennis è lo sport del diavolo, si tiene conto anche di episodi del genere: basta l’esultanza anticipata di un tifoso e certi equilibri che sembravano solidi vanno in mille pezzi in un istante.

Prima di chiudere penso meritino una piccola nota le giocatrici non teste di serie che sono approdate alla seconda settimana. Nella parte basse del tabellone ce l’ha fatta Victoria Azarenka, che però sappiamo quale lignaggio abbia: non è testa di serie solo per ragioni extratennistiche. Oggi l’hanno raggiunta Magdalena Rybarikova e Petra Martic.

Ho seguito la partita di Rybarikova ed è stata una specie di lezione a Lesia Tsurenko su come si sfrutta l’erba, rispetto a chi invece gioca sui prati come se fosse sul cemento. Colpi di volo, smorzate, slice di rovescio. Un repertorio che non tutte possiedono.

Anche Martic sa esprimersi bene sull’erba, e per alcuni aspetti tecnici assomiglia a Rybarikova: l’uso del rovescio bimane in top alternato allo slice a una mano, la variante del serve&volley, la capacità di eseguire bene le palle corte.
Martic ha raggiunto da qualificata il quarto turno in due Slam consecutivi, visto che le era riuscito anche a Parigi: ormai è virtualmente rientrata fra le prime 100 del mondo. All’inizio di aprile, dopo una sosta di quasi un anno per problemi alla spina dorsale, era numero 659 del mondo. È partita dal nulla (31 punti WTA) ed è tornata nell’elite del tennis in poco più di tre mesi. Uno dei ritorni più rapidi e di successo degli ultimi anni. Martic e Rybarikova si incontreranno fra loro e quindi una continuerà la corsa almeno sino ai quarti di finale.

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Lo Slam racconta: Wimbledon 1948, la chimera di John Bromwich

Forse fu la “…Worst ever Wimbledon final” come titolò Lance Tingay il giorno dopo.
Non sappiamo se andò veramente così, per certo ebbe invece tutti i caratteri di un grande dramma teatrale. Con esito crudele.

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Londra, Centre Court, 2 luglio 1948, pomeriggio.

Quinto set, 5-3 e 40-30, secondo match point.

John Bromwich accarezza la pallina, serve una prima piazzata e sulla risposta attacca verso il rovescio di Falkenburg. Il californiano colpisce e in tribuna la sorella Jinx respira a fatica mentre la pallina vola senza fretta lungo la linea di gesso… STOP!

 

Sei anni prima, da qualche parte nei dintorni di Port Moresby, Nuova Guinea.

Steso su un’amaca fra due palme il caporale del supporto aereo John Edward Bromwich faticava a concentrarsi sul libro che aveva in mano. Ormai da un anno lui e i suoi compagni della 25a brigata resistevano all’avanzata dei giapponesi, che avevano bisogno dell’isola come trampolino per l’invasione dell’Australia. Port Moresby e la sua costa, protette dalla flotta statunitense, rimanevano l’ultimo avamposto degli alleati.

“Quanto durerà ancora questo inferno?” si chiedeva il giovane.

Meno di tre anni prima lui era un re del tennis, trionfatore nello slam australiano e soprattutto in Coppa Davis, il vero agone.

Il Challenge Round si era giocato sui campi stranieri del Merion Cricket Club e dopo la prima giornata il campione di Wimbledon Bobby Riggs e lo scudiero Parker avevano portato i padroni di casa sul 2-0. I palloncini colorati erano pronti.

Poi il miracolo.

Il capitano a stelle e strisce Walter Pate manda in campo due ragazzini nel doppio, e poco importa se uno dei due è il futuro King Jack Kramer. John e Adrian Quist, una delle migliori coppie mai esistite, prendono le misure ai due monelli e li mandano a casa con una sonora sculacciata

Ultima giornata, Quist gioca il match della vita e batte al quinto un Bobby Riggs debilitato da un malore notturno ma gran signore nel riconoscere i meriti dell’australiano. Poco dopo John aveva subito messo le cose in chiaro con un 6-0 iniziale a Parker e non si era più voltato indietro. Eccole parole del columnist del Times John Kieran:

“At the end of the first set the crowd started to leave.

At the end of the second set the policemen and ushers left.

At the end of the third set the Davis Cup left.”

Sarebbero mai tornati quei tempi? L’amara sensazione di veder come acqua scorrere via i suoi anni migliori fra attacchi di malaria e missioni nella giungla non lo abbandonava mai, nemmeno nel sonno. In quelle poche ore di ristoro il giovane biondo australiano si abbandonava ai ricordi e sotto la soglia della coscienza tornava a quando tutto era cominciato…

John Edward Bromwich, australiano di Sidney classe 1918, fu un prodigio fin dalla prima volta che impugnò una racchetta quasi più alta di lui.  Con entrambe le mani, come spesso capita ai piccolini. Per i primi anni serviva anche a due mani, appoggiando la pallina da lanciare agli indici stesi e uniti. Col tempo queste bizzarrie si trasformarono… in altre bizzarrie.

Mancino naturale e ambidestro, Johnny prese a servire e smecciare con la destra, facendosi poi scivolare la racchetta nella mano opposta e giocare gli altri colpi con la sinistra. Quella racchetta era unica come lui, leggerissima e con un manico sottile “… almost as slim as that of a golf club”. Per aggiungere controllo poi prediligeva un’incordatura lentissima, simile per i colleghi a una rete per cipolle.

Un fenomeno inimitabile, perché a questo strano arsenale univa sensibilità di mano, senso dell’anticipo e piazzamento di palla unici e visti dopo solo in un altro John circa mezzo secolo dopo . “He could make the ball talk” disse di lui il connazionale Roy Emerson, 14 Slam vinti, non uno che passa per strada.

Oggi non ci si sorprende più di nulla ma immaginatevi nel mondo ingessato di quasi un secolo fa l’impressione che fece questo giovane prodigio, capace a 18 anni di arrivare in finale sia in singolo che in doppio ai campionati australiani con quello stile strano e unico, quel modo di piazzare la palla su un francobollo senza sforzo e di piegarsi fino a sfiorare il terreno per aumentare il controllo delle traiettorie. A fine match aveva sempre entrambe le ginocchia sporche d’erba come un flanker dei Wallabies.

Ecco al proposito qualche riga del Time magazine datata 1937:

“…As a freak tennis player, Australia’s John Bromwich makes McGrath’s methods look banal. Like 21-year-old McGrath, Bromwich is not only a freak but a prodigy.”

Niente potenza quindi, ma “beaucoup de finesse”, un uso sapiente degli angoli, il gioco teso a spostare e spingere fuori equilibrio l’avversario per finirlo poi con tocco letale, lento, lontano. Fu soprattutto questa caratteristica a farne uno dei migliori doppisti di tutti i tempi.

“…for a hypothetical all-time, all-Universe Davis Cup competition i would choose  Bromwich and Don Budge as my doubles team. Anytime you had Bromwich in your forecourt, you should win.” (Jack Kramer)

Old Brom sul campo era un perfezionista, voleva ogni punto e i lunghi soliloqui a ogni colpo insoddisfacente lo fecero passare agli inizi di carriera come leggermente “unfair”.

Al proposito Harry Hopman amava raccontare una storiella spiritosa.

Nel 1938 un John ventenne stava giocando ad Adelaide contro il connazionale Leonard Schwartz. In vantaggio per  6-0, 6-0, 5-0 e 15-40 sul servizio avversario Bromwich viene sbattuto fuori campo da una volée angolatissima. Arriva sulla palla e gioca un lob liftato di rovescio che esce di un dito. Si blocca, prende a grattarsi la testa con fare perplesso ed esclama: “I’ll never win this match if I keep making mistakes like that.”

Al termine del conflitto mondiale Bromwich ha quasi 27 anni e un fisico debilitato dai combattimenti in prima linea. Il suo è lo stesso destino di una intera generazione di campioni che vide la propria carriera spezzata in due tronconi dalla follia degli eserciti.

King Kramer prestò servizio nel Pacifico a bordo di un cacciatorpediniere, Gottfried von Cramm sul fronte russo con la Wermacht, Don Budge si ruppe i legamenti della spalla destra nelle isole del pacifico e non fu più lo stesso, Joe Hunt (il compagno di doppio di Kramer in quella Davis del 1939) precipitò in mare col suo aereo. Bobby Riggs, più fortunato, passò il conflitto a giocare a tennis con il suo ammiraglio di giorno, mentre di notte il campo si tramutava in un tavolo di panno verde.

Brom però ci crede e piano piano torna in forma. È solo una questione fisica perché il talento è sempre lì sottopelle, pronto a sgorgare splendente.

E in quell’estate londinese del 1948, una delle più fredde del secolo, tutto sembra essere pronto perché la corona di Wimbledon si posi infine su biondi capelli australiani

Johnny sorvola turni e avversari con la leggerezza di una classe superiore, non perde un set e nei quarti di finale impartisce una lezione di tennis su erba allo statunitense Budge Patty, un tipino che un paio di anni dopo trionferà sia a Parigi che a Londra.

Arriva lanciato come una locomotiva, pronto a travolgere l’ultimo ostacolo. Tutto sembra dalla sua parte, giocherà inaspettatamente contro la settima testa di serie e il solito Jack Kramer, impegnato in una tournée in Sud America con i pro, scommette una discreta sommetta con i bookies londinesi sulla sua vittoria.

Ma tennis e diavolo sono legati, e quel giorno Belzebù ci mise certamente la coda.

La settima testa di serie risponde al nome di Robert Falkenburg, un allampanato ventiduenne all american boy nato a New York e trapiantato subito nell’assolata California. Sua sorella Jinx è una delle modelle più famose dell’epoca, lui diventerà miliardario in una seconda vita vendendo hamburger e milk shakes in Brasile. Alto come una torre e magro come un giunco, Falkenburg si forma al Los Angeles Tennis Club, mecca del tennis a stelle e strisce e culla dei più grandi campioni del tempo.

Il suo fisico e la velocità di piedi lo rendono perfetto per il Big Game, il serve & Volley à la Kramèr guidato razionalmente dai precetti del cosiddetto “tennis percentuale”. Fra i campi del LATC infatti si aggirava da anni un personaggio di nome Cliff Roche, un ingegnere divenuto miliardario grazie a brevetti automobilistici. Cliff era un discreto tennista amatoriale e si circondava di giovani promesse, fra cui lo stesso Big Jack e Ted Schroeder, alle quali insegnava che il campo da tennis era simile al tavolo da gioco o al mondo degli affari, bisognava valutare tutte le opportunità e optare sempre per quelle più vantaggiose. Scelte programmate e riproducibili come nell’industria, nessuno spazio per improvvisazione o colpi di testa.

Con l’immancabile Budweiser ghiacciata in mano, un bloc notes e una penna l’ingegnere indottrinava quotidianamente i suoi discepoli.

“Attaccate sempre sul rovescio avversario e coprite il lungolinea. Nessuno, eccetto Budge, è in grado di giocare un valido passante incrociato da laggiù” 

“Concentrate le energie nel difendere i vostri turni di battuta. Se non perdete il servizio non potete essere sconfitti”

“Cercate il break solo quando si creano situazioni favorevoli, altrimenti mollate subito”

Questi solo alcuni dei postulati attorno ai quali Bob Falkenburg plasmò la sua idea di tennis. Un’idea estrema.

Sosteneva infatti che per vincere una partita erano sufficienti solo 18 games, quelli giusti. La sua strategia era lottare strenuamente finché il punteggio rimaneva in equilibrio e mollare all’istante appena un game o un set si metteva male.

Fra i giocatori circolava la storiella secondo la quale il punteggio perfetto per un match di Falkenburg era 7-5, 0-6, 7-5, 0-6, 6-4.

Bob soffriva di difficoltà respiratorie ricorrenti e approfittava di ogni momento per riposarsi o riprendere fiato, arrivava perfino a sdraiarsi sul campo qualche secondo per poi tirarsi lentamente in piedi con l’aiuto della racchetta.  Questo atteggiamento unito allo stile di gioco che nulla o poco concedeva allo spettacolo gli valsero sempre una certa antipatia fra il pubblico, specie quello londinese.

Alla vigilia della finale un giornalista arrivò a chiedergli con malizia se aveva l’ambizione di diventare il primo campione orizzontale sul Centre Court.

“Prometto che cercherò di rimanere in piedi il più a lungo possibile”  rispose Bob con autoironia, sempre segno di grande intelligenza.

Nei turni preliminari del torneo Falkenburg si fa trascinare al quinto dallo sconosciuto yugoslavo Mitic e rischia ancora nei quarti contro Lennart Bergelin, il futuro mentore dell’immenso Bjorn Borg.

Il giorno del destino è venerdì 2 luglio 1948.

Un classico maglione bianco scollato a V con bande colorate che richiamano i rispettivi colori nazionali, John e Bobby entrano sul centrale affiancati e sorridenti.

Pochi metri dietro un ufficiale di campo in giacca candida porta un fascio di racchette.

Il primo set è subito una montagna russa e sembra corroborare le speranze dell’australiano, che recupera da 2-4 sotto e con una serie magica di tre giochi conditi da tocchi sopraffini si presenta al servizio per chiudere il parziale. Due set point non sono però sufficienti, Falkenburg annulla il primo in tuffo a rete e il secondo con un passante, brekka e tira dritto fino all’inatteso 7-5.

Il secondo set è un battito d’ali, Bob perde subito il servizio e da quel momento in poi molla completamente gli ormeggi. Seguendo la sua personalissima “Way of tennis” lo statunitense rinuncia a giocare, colpisce a casaccio e incassa in pochi minuti un 6-0 mortifero e gli ululati di disapprovazione del pubblico.

“Cosa ci fai su questo campo?” gli grida uno spettatore esasperato da quell’atteggiamento. Falkenburg si limita a scrollare le spalle.

Sa di essere perfettamente in linea con il suo piano luciferino e infatti irrompe di nuovo nel match a spron battuto. Attacca all’arma bianca e una volta giunto col naso sulla rete anche un passatore eccezionale come Bromwich ha le sue brave difficoltà a superare il suo metro e novantadue. “It was like having a church at the net…” ricorderà tempo dopo in un intervista.

Nel quarto set Johnny recupera brillantemente il suo gioco di caratura superiore, strappa nel proverbiale settimo gioco e pareggia i conti con un comodo 6-3.

Qui giunti il destino di Falkenburg appare segnato, lo statunitense si accascia supino sull’erba in cerca di ristoro, allunga le pause fra i fischi del pubblico e nonostante questo cede subito la battuta per un 3-0 Australia che pare definitivo.

Le cronache del tempo ricordano che in quel terzo gioco Bromwich sbatacchia l’avversario a destra e sinistra con le sue millimetriche traiettorie. Falkenburg, lingua fuori e mani sui fianchi, appare disarmato e in pochi minuti è sotto 1-4

Rod Laver, anni dopo ricorderà che spesso un simile punteggio appare definitivo mentre in realtà non lo è, in fondo si tratta solo di un break… Purtroppo per Bromwich è la verità.

Old Brom però sembra ormai il padrone, veleggia comodo fino al 5-3 e servizio, deve solo piantare l’ultima banderilla per alzare la coppa. Prima un corto passante in cross di rovescio, poi l’errore avversario e infine una delicata palla corta che muore un dito oltre il nastro lo portano sul 40-15. Bob ha vinto solo un punto su uno scambio fortunato, sembra con la testa sul ceppo in attesa della lama ma trova ancora la forza di attaccare e annullare la prima occasione con una corta volée.

Londra, Centre Court, 2 luglio 1948, pomeriggio.

Quinto set, 5-3 e 40-30, secondo match point.

John Bromwich accarezza la pallina, serve una prima piazzata e sulla risposta attacca verso il rovescio di Falkenburg. Il californiano colpisce e in tribuna la sorella Jinx respira a fatica mentre la pallina vola senza fretta lungo la linea di gesso… e la colpisce in pieno!  La nuvoletta bianca che si alza dal campo si dissolve in un secondo, così come le speranze di vittoria dell’australiano.

Bob ora è onnipotente come solo chi ha saputo risalire dal baratro, annulla un terzo match point con un missile di dritto e poco dopo pareggia. Bromwich è un uomo spezzato, la valanga oltre il net cresce a dismisura e con due smash terrificanti gli strappa il servizio a zero. Quando sul 6-5 Bob Falkenburg lancia la pallina in aria i reporter di mezzo mondo stanno già dettando i loro pezzi al telefono.

Un ace, un dritto in rete di Brom e un vincente da fondo decretano il 40/0.

Lo statunitense pianta saldo il piede sulla riga di fondo per l’ultima battuta, a 24 metri di distanza John Bromwich è una figura inerme.  L’ace finale pare uno sparo.

Un proiettile dritto al cuore gli avrebbe fatto meno male.

2 luglio 1948, Wimbledon

Robert Falkenburg b. John E. Bromwich 7/5, 0/6, 6/2, 3/6, 7/5

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Santopadre, sul rientro di Berrettini a Toronto: “Dopo l’erba avevamo la possibilità di giocare sulla terra europea, ma l’allenamento è prioritario”. Su Wimbledon: “Evitare il boomerang consapevoli del lavoro”

Vincenzo Santopadre racconta le pieghe psicologiche insinuatesi nel dietro le quinte: “i momenti più difficili si hanno quando non si gioca, per un allenatore vale lo stesso. Sarebbe stato meglio discutere di partire perse piuttosto che di partite non giocate”

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Vincenzo Santopadre (foto Adelchi Fioriti)

Matteo Berrettini, come confermato dall’entry list del torneo canadese, dopo lo splendido ottavo di finale raggiunto a Wimbledon “dal nulla” è pronto a ripartire prendendo parte al Masters 1000 di Toronto, per poi spostarsi a Cincinnati e concludere il trittico della stagione estiva sul cemento nordamericano con l’appuntamento principe di questa parte di anno tennistico: lo US Open, Slam nel quale il tennista romano è stato semifinalista nel 2019.

In vista di questo imminente nuovo scorcio di calendario ATP, il coach dell’azzurro Vincenzo Santopadre ha tratteggiato un bilancio delle ultime settimane pienamente immersive vissute dal suo allievo non mancando neppure di evidenziare le motivazioni che hanno indotto a modificare la programmazione rispetto al 2022: ricordiamo infatti che Matteo lo scorso anno si iscrisse all’ATP 250 di Gstaad.

Inoltre c’era anche chi paventava una possibile partecipazione all’ATP 500 di Washington, che per l’appunto è stata smentita dai fatti e dalle effettive scelte del team.

 

Infine, il 51enne capitano di United Cup ed ex n. 100 della classifica ATP ha svelato anche alcuni retroscena di natura emotiva celati sia dietro la sorprendente – considerata la forma fisica di Berretto, il suo periodo prolungato di lontananza dalla competizioni e la conseguente scoppola subita da Sonego proprio al ritorno in campo in quel di Stoccarda – cavalcata londinese sia nei meandri della lunga convalescenza, non priva di difficoltà, dalle gare agonistiche che l’ex n. 6 al mondo e tutto il suo staff hanno dovuto affrontare.

Ora, tuttavia, bisogna soltanto rimanere lucidi e cavalcare l’onda adrenalinica derivante dai successi su Sonny, De Minaur e Zverev targati Church Road senza dimenticare, nonostante la sconfitta finale, il set strappato al futuro campione dei Championships.

Allo stesso tempo però è necessario perseguire la scia positiva evitando di interpretarla eccessivamente trionfalmente altrimenti si rischia – come ha ricordato Santopadre – l’effetto opposto a quello sperato. Dunque la ricetta da qui in avanti è molto semplice: testa bassa, allenarsi sodo ed essere consapevoli che il lavoro paghi i dividenti degli sforzi profusi.

Salute, Allenamento, Competizione: i tre Mantra del Berrettini “pensiero”

Dopo l’erba – spiega il tecnico romano – avevamo l’alternativa di giocare sulla terra in Europa, come fatto nel 2022, ma ha prevalso l’idea di concentrarci sull’allenamento. In questo momento è una priorità: Matteo ha bisogno tanto di allenarsi quanto di giocare partite, visto che nell’ultimo anno ne ha disputate poche. Fortunatamente, è riuscito a giocarne ben quattro a Wimbledon, ottenendo tanto con poco, visto che era poco allenato e non era al top, arrivava da un forfait e aveva qualche fastidio dal punto di vista fisico. Così abbiamo puntato sull’allenamento“.

Wimbledon 2023, un percorso inatteso

È stata una parentesi piacevole e inaspettata – dice ancora –, che ci ha fatto capire come Matteo possa stare a certi livelli anche senza avere troppe partite nelle gambe. Già lo scorso anno, quando al rientro dopo l’intervento alla mano aveva vinto due tornei di fila, ci eravamo accorti che può tornare competitivo in maniera repentina, e ora ne abbiamo avuto la conferma. Ogni stop comporta dei disagi: un giocatore perde l’abitudine ai momenti di tensione, a giocare una palla-break, a gestire la tensione e via dicendo. Aspetti che si possono riacquisire solamente giocando. Eppure, anche senza tutto ciò e pur non essendo al meglio, abbiamo capito che il suo livello è questo. Un passaggio che ci dà fiducia per il futuro“.

Una forma fisica non eccelsa ha portato un ottavo Slam, quali traguardi può raggiungere Matteo quando riacquisterà il Top della condizione atletica?

Dal punto di vista emotivo – afferma ulteriormente il coach – un risultato come quello di Wimbledon è il meglio che a Matteo potesse capitare. Si tratta di una fortissima spinta adrenalinica. Ovviamente il risultato va interpretato, altrimenti di rischia l’effetto boomerang. Se interpretato nel modo corretto, spinge a fare ancora di più, a volere ancora di più. Tutto passa dal lavoro, dall’allenamento e dalla voglia di faticare ogni giorno. Ma con la consapevolezza che gli sforzi vengono ripagati”.

Affrontare un infortunio è difficile per il giocatore quanto per il coach

È stato faticoso anche per me – spiega infine Vincenzo -, perché per un allenatore vale lo stesso che per un giocatore: i momenti più difficili si hanno quando non si gioca. Sarebbe stato meglio discutere di partite perse, piuttosto che di partite non giocate. Anche io ho dentro di me un lato agonistico che mi stimola, e la parte del lavoro che preferisco è stare in campo e girare i tornei, per competere“.

Il lavoro “fuori dal campo” e la sua funzione

Per un atleta è fondamentale avere un team che gli sappia stare accanto nel momento di difficoltà, che sia in grado di capire chi ha di fronte e come aiutarlo. È facile farlo quando è tutto rose e fiori, meno in altre situazioni. Tutti i membri del team, a modo loro, sono stati importanti, per capire come affrontare l’infortunio, come uscirne e come prevenirne di nuovi. Nel complesso, è stato svolto un lavoro di supporto psicologico che si è rivelato molto utile.

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A Wimbledon, l’occhio umano non riesce a seguire la palla

Nella cornice ovattata dei Championships, i giudici di linea hanno effettuato chiamate errate nella prima settimana, e conseguentemente hanno cambiato la traiettoria delle partite per Andy Murray, Bianca Andreescu e Venus Williams, tra gli altri. È giunta l’ora di cedere il passo ai computer?

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Di Matthew Futterman, pubblicato dal New York Times il 10 luglio 2023

Andy Murray è stato una vittima. Anche Bianca Andreescu lo è stata. Jiri Lehecka, ha dovuto giocare, per lo stesso motivo, un quinto set e sostanzialmente vincere due volte la sua partita del terzo turno. Lo Hawk-Eye Live, un sistema di chiamata elettronica, avrebbe potuto salvare il loro set, persino la loro partita, ma Wimbledon non utilizza questo sistema al massimo, preferendo un approccio più tradizionale.

Durante il resto dell’anno nei tour professionistici, molti tornei si affidano esclusivamente alla tecnologia, consentendo ai giocatori di sapere quasi con certezza se la loro pallina cade dentro o fuori dalle linee, poiché è il computer a gestire le chiamate. Ma quando i giocatori vengono all’All England Club per quello che è ampiamente considerato il torneo più importante dell’anno, il loro destino è in gran parte determinato dai giudici di linea che si affidano alla loro umana vista.

 

Cosa che rende gli errori ancora più frustranti, poiché Wimbledon e i suoi partner televisivi hanno accesso alla tecnologia, che i giocatori potrebbero utilizzare per contestare un numero limitato di chiamate ogni partita, e chiunque guardi la trasmissione può vedere in tempo reale se una palla è dentro o fuori. Al contrario, le persone per le quali queste informazioni sono più importanti – i giocatori, l’arbitro di sedia, che supervisiona la partita – devono fare affidamento esclusivamente sul giudice di linea.

Quando l’occhio umano sta giudicando un servizio che viaggia a circa 120 mph (200 km/h e oltre). e gli scambi di dritto che sull’erba tendono a essere più veloci di 80 mph (130 km/h), gli errori sono destinati a verificarsi.

Ovviamente come giocatore non vorresti mai trovarti nella situazione di esser vittima di errori di giudizio su punti importanti“, conferma Murray, che avrebbe potuto vincere la partita del secondo turno contro Stefanos Tsitsipas nel quarto set, se fossero stati i computer, e non gli esseri umani, ad avere la responsabilità delle chiamate. Il ritorno di rovescio di Murray è stato giudicato fuori, anche se i replay hanno mostrato il rimbalzo in campo. Murray ha finito per perdere quella partita in cinque set.

Nessun torneo di tennis si aggrappa alle sue tradizioni quanto Wimbledon. Campo da tennis in erba. Le partite sul campo centrale iniziano più tardi che altrove, segnatamente dopo che gli occupanti del palco reale hanno pranzato. Niente luci per il tennis all’aperto. Una coda con ore di attesa per i biglietti dell’ultimo minuto. Queste tradizioni non hanno alcun effetto sul risultato delle partite. Al contrario mantenere i giudici di linea in campo, dopo che la tecnologia si è dimostrata più affidabile, ha influenzato, forse anche falsato, le partite chiave a giorni alterni.

Per capire cosa e perché sta accadendo, è importante capire come il tennis sia finito con l’avere nei suoi tornei regole diverse per giudicare se le palle sono dentro o fuori. Prima dei primi anni 2000, il tennis – come il baseball, il basket, l’hockey e altri sport – faceva affidamento su ufficiali di gara umani per effettuare chiamate, molte delle quali sbagliate, secondo John McEnroe (e praticamente ogni altro tennista).

Il più famigerato crollo nervoso di McEnroe è avvenuto a Wimbledon nel 1981, ed è stato provocato da una chiamata errata. “Mi sarebbe piaciuto avere Hawk-Eye“, ha detto Mats Wilander, il sette volte campione Grande Slam in singolo e fra le star del circuito negli anni ’80.

In seguito il tennis ha iniziato a sperimentare il sistema di valutazione Hawk-Eye Live. Le telecamere catturano il rimbalzo di ogni palla da più angolazioni e i computer analizzano le immagini per rappresentare la traiettoria della palla e i punti di impatto con un margine di errore minimo. I giudici di linea sono rimasti come backup, ma i giocatori hanno ricevuto tre opportunità per ogni set di contestare una chiamata di linea e una ulteriore possibilità di revisione del giudizio quando un set è andato al tie-break.

Ciò ha costretto i giocatori a cercare di capire quando rischiare usando una delle chiamate, il famoso “challenge”, di cui potrebbero aver bisogno in un punto più cruciale del set. “È troppo“, ha detto Wilander. “Non riesco a immaginare di fare quel calcolo, stando lì, a pensare se un colpo è andato bene, quanti ‘challenge’ mi rimangono, quanto manca alla fine del set“. Anche Roger Federer, bravo in quasi ogni aspetto del tennis, era notoriamente pessimo nell’utilizzo dei challenge.

Dopo poco tempo, i dirigenti del tennis hanno iniziato a prendere in considerazione un sistema di chiamata di linea completamente elettronico. Quando la pandemia di Covid-19 ha colpito, i tornei cercavano modi per limitare il numero di persone sul campo da tennis. Craig Tiley, amministratore delegato di Tennis Australia, ha affermato che anche l’adozione delle chiamate elettroniche nel 2021 faceva parte della “cultura dell’innovazione” degli Australian Open. Ai giocatori è piaciuto. Così pure la cosa è piaciuta i fan, ha detto Tiley, perché le partite scorrevano più velocemente.

L’anno scorso, gli US Open sono passati alle chiamate completamente elettroniche. È in corso un dibattito sul fatto che le linee rialzate sui campi in terra battuta impedirebbero alla tecnologia di fornire la stessa precisione riscontrata sull’erba e sui campi in cemento. All’Open di Francia e in altri tornei su terra battuta, la palla lascia un segno ben visibile, che gli arbitri controllano spesso.

Nel 2022, l’ATP Tour maschile prevedeva 21 tornei con chiamate di linea completamente automatizzate, comprese le tappe a Indian Wells in California, a Miami in Florida, in Canada, e a Washington, D.C. Tutti questi siti ospitano anche tornei WTA femminili. Ogni torneo ATP lo utilizzerà a partire dal 2025. “La domanda non è se sia sempre corretto al 100%, ma se sia migliore di un essere umano, ed è decisamente migliore di un essere umano“, ha affermato Mark Ein, proprietario del Citi Open a Washington, DC.

Un portavoce dell’All England Club ha affermato, la domenica centrale del torneo, che Wimbledon non ha intenzione di eliminare i giudici di linea. “Dopo il torneo esaminiamo tutto ciò che facciamo, ma in questo momento non abbiamo intenzione di cambiare il sistema“, ha concluso Dominic Foster. Sabato, Andreescu è rimasta vittima di un errore umano. Campionessa canadese degli US Open 2019, Andreescu ha ricominciato ad arrivare in fondo ai tornei del Grande Slam dopo anni di infortuni.

Verso la fine della sua partita contro Ons Jabeur, Andreescu ha rinunciato a chiedere un intervento elettronico su un tiro decisivo che il giudice di linea aveva chiamato fuori. Dall’altra parte della rete Jabeur, vicina alla palla nel momento in cui colpiva il terreno, ha consigliato ad Andreescu di non sprecare una delle sue tre possibilità di challenge, dicendo che la palla era davvero fuori. La partita è continuata, non prima che i telespettatori vedessero il replay computerizzato che mostrava la palla che cadeva sulla linea. “Mi fido di Ons“, ha detto Andreescu dopo che Jabeur ha rimontato per batterla in tre set, 3-6, 6-3, 6-4.

Andreescu ha spiegato che stava pensando alla sua partita precedente, una maratona di tre set decisa da un tie-break finale, durante il quale ha detto di aver “sprecato” diversi challenge. Contro Jabeur, aveva pensato: “Lo risparmierò, per ogni evenienza“. Cattiva idea. Jabeur ha vinto quel game, poi il set, e poi il match.

Sul campo n. 12, il sistema elettronico stava causando un altro tipo di confusione. Lehecka ha avuto un match point contro Tommy Paul quando ha alzato la mano per un challenge dopo aver ribattuto un colpo di Paul atterrato sulla linea. La sua richiesta di challenge è arrivata proprio mentre Paul mandava in rete il colpo successivo. Il punto è stato rigiocato. Paul lo ha vinto, e pochi istanti dopo si è ripetuto vincendo il set, portando la partita al set decisivo. Lehecka ha vinto, ma ha dovuto correre per un’altra mezz’ora.

Venus Williams ha perso il match point nella sua partita del primo turno in un’altra sequenza complicata che prevedeva un challenge. Leylah Fernandez, canadese due volte finalista Major, afferma invece di apprezzare la tradizione dei giudici di linea a Wimbledon mentre il mondo cede di più alla tecnologia. D seguito, però, ha chiosato:” Se mii fosse costato una partita, probabilmente avrei dato una risposta diversa”. È proprio in quella situazione che si è ritrovato Murray, due volte campione di Wimbledon, dopo la sconfitta di venerdì pomeriggio [al secondo turno, contro Tsitsipas].

Quando è arrivato alla conferenza stampa, già sapeva che quel rovescio lento e angolato, atterrato a pochi metri dall’arbitro, aveva toccato la linea, era valido. Il punto gli avrebbe dato due possibilità per strappare il servizio di Tsitsipas e servire per il match. Quando gli è stato detto che il colpo era valido, i suoi occhi si sono spalancati con un sussulto, poi lo sguardo è piombato sul pavimento. Murray ora sapeva cosa avevano visto tutti gli altri.

La palla era finita sotto il naso dell’arbitro, che ha confermato la chiamata, ha detto Murray. Non riusciva a immaginare come qualcuno potesse aver fatto un errore del genere. In realtà gli piace avere i giudici di linea, ha aggiunto. Forse è stata colpa sua per non aver usato un challenge. “Alla fine“, ha detto, “il giudice di sedia ha fatto una brutta chiamata su una palla proprio di fronte a lei”.

Traduzione di Michele Brusadelli

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