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La Piccola Biblioteca di Ubitennis. Borg-McEnroe: il film
Due campioni. Una sfida. Il film sulla Golden Age del tennis contemporaneo. Ad Adriano Panatta è piaciuto, a Gianni Clerici no. La nostra opinione

Borg-McEnroe:
Janus Metz Pedersen, 2017, Borg McEnroe, film, 100 min., Lucky red, 2017
La sfida di Janus Metz Pedersen è da apprezzare. Fare un film su Borg McEnroe vuol dire mettere le mani sulle pietre focaie che hanno incendiato il gioco del tennis proiettandolo in un orizzonte che esce dallo sport ed entra nel costume, nell’immaginario collettivo e nel dna di ogni epica che si rispetti. Da Achille ed Ettore, passando per Magic Jonson e Larry Bird, fino ad arrivare a Federer e Nadal. È per roba come questa che si prende da bambini la racchetta in mano trasformando un cortile o una stanzetta nel centrale di Wimbledon. Senza quei campioni speciali che ci accendono una certa frequenza nella testa, la nostra vita sarebbe poco più di quella di scimmie vestite e pettinate che mangiano ogni giorno, dormono e poi muoiono. Noi accadiamo dentro le storie. È questo il segreto intimo dello sport, della narrazione e la sfida implicita del film.
Ma BorgMcEnroe, da leggere come una cosa sola, non è solo questo. Il tiebreak di 21 minuti nel quarto set è stata la testa di ariete che ha ipnotizzato davanti agli schermi il mondo intero, rompendo la membrana che separava un perimetro verde circondato da snob, da una società carnivora che si nutre di spettacolo come quelle antiche si nutrivano di storie. Niente da quel giorno sarebbe stato più come prima. Se il dualismo Federer-Nadal è il primo dell’era social, quello tra Borg e Mc è stato il primo dentro il grande protagonista del 900, sua maestà la televisione. Lo stesso amplificatore atomico che ha trasformato quattro ragazzi di Liverpool in una cosa più famosa di Gesù Cristo. Il tiebreak rappresenta nel film l’appuntamento fatale col destino che incombe dal primo minuto. Qualcosa dal quale non si può sfuggire. Una sliding doors che avrebbe cambiato per sempre il tennis e la vita di quelli che alla fine rimangono due ragazzi costretti a confrontarsi, dal giorno dopo, con qualcosa di molto più grosso di loro. Qualcosa che li trasformerà in amici, in leggende ma che li distruggerà. Soprattutto Borg. Il vero protagonista del film e il monolite nero del tennis. Non credo che ci sarà mai più qualcosa di così magnetico nel tennis e nello sport in generale. Un buco nero che attrae ogni cosa e che non restituisce nulla se non il suo insondabile mistero.
Per quanto il film sia fatto bene, e l’attore che interpreta Borg sia stato fantastico, non sono certo le armi di un film agiografico, ben documentato e in fin dei conti troppo rispettoso a potere indagare la psiche e i sentimenti del monolite svedese. Per quanto fatte davvero bene le scene delle partite sono l’anello debole del film. Funzionano visivamente, funzionano drammaturgicamente (danno il ritmo) ma sono tempo perso per l’approfondimento di un mondo che, davanti all’anestetizzante retorica del superprofessionismo contemporaneo, oggi possiamo solo invidiare per l’ingenuità e la vitalità. Un mondo in cui gli uomini e i tennisti coincidevano. Un mondo in cui potevamo identificarci e specchiarci. Un mondo in cui, davanti alla vitalità anfetaminica di Gerulaitis, meravigliosamente rappresentata da Robert Emms, miglior attore non protagonista, Safin, Gulbis e Kyrgios sembrano delle educande col batticuore e le gote rosse. Se volete una pietra di paragone, la differenza tra BorgMcEnroe e FederNadal è la stessa che intercorre tra Maradona e Messi. Il secondo è semplicemente un supercampione, l’essere umano che gioca meglio al calcio, un dono avuto dal cielo, l’altro è nato in una favelas, ha inseguito i sogni di un bambino, è “megghiu ì Pelé” e solo a scrivere il suo nome mi diventano gli occhi umidi mentre vengo magicamente proiettato al San Paolo o a Città del Messico ed esulto assieme a migliaia di sconosciuti perché l’ingiustizia del mondo, almeno per un momento, viene capovolta.
Se comunque Borg può essere soddisfatto del film (immagino abbia guardato fisso per dodici secondi il regista, a cui saranno sembrati due anni, e abbia annuito per ripiombare l’istante successivo nel suo imperscrutabile mondo interiore) a John il film non è piaciuto. E John ha ragione. L’americano viene usato come contrappunto narrativo e nonostante l’evoluzione psicologica del personaggio, si intercetta in maniera macchiettistica solo la superficie del campione e non la sua carica dirompente che fa dire a Picasso Petzschner, il più grande tra gli scrittori sconosciuti di tennis [1], che vale più una volée di Mc sessantenne che la somma degli Slam di Federer e Nadal. Per il tifoso-ragioniere col pallottoliere in mano è un’eresia, per chi si ricorda i turbamenti prodotti da uno sguardo della compagna delle medie no. Quello sguardo (che vale più della somma degli sguardi di diciannove top model) è l’equivalente della volée eretica di Mc o della svolta elettrica di Bob Dylan o, se volete, dei silenzi magnetici di Borg. Roba simbolica che in un istante è capace di cambiare il mondo intero e tutta la nostra vita.
Per quanto ben fatto il Film non scioglie questo mistero, anche se si esce dalla sala col magone. Per chi, dopo il magone, volesse approfondire la questione, consiglio vivamente almeno tre libri presenti nella Piccola Bibioteca di Ubitennis: l’ottimo “Borg vs McEnroe” di M. Folley [2], dal quale sono tratti moltissime informazioni e alcuni dei dialoghi del film, la completa panoramica sulla Swedish revolution di Holm e Roosvald [3] e soprattutto “Traslocando”, l’autobiografia di Loredana Berté [4], tra le tante cose la seconda moglie del monolite svedese. Nella disarmante sincerità di Loredana emerge anche il dark side del Monolite. Un ragazzo semplice, bello come un dio, costretto a confrontarsi con le lusinghe di un mondo troppo più grande di lui. Paradossalmente le paranoie, le dipendenze, le depressioni raccontate, non spiegano affatto il mistero biondo, ma se possibile lo amplificano ulteriormente restituendoci la brutalità del mondo in cui viviamo.
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[2] Vedi qui
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Premio “Gianni Mura”: vince Giorgia Mecca con “Serena e Venus Williams, nel nome del padre” come miglior libro sul tennis
Il libro sulle sorelle Williams si aggiudica, alla prima edizione, il premio “Gianni Mura” a Palazzo Madama e riceve la menzione speciale della giuria

Sabato 12 novembre, una settimana prima che anche il direttore Ubaldo Scanagatta varcasse la soglia di Palazzo a Madama per chiudere la rassegna stampa di 8 giorni di ATP Finals, prendeva vita la prima edizione del premio Gianni Mura. Un premio intitolato a uno dei più illustri giornalisti sportivi italiani, storica firma del giornale Repubblica, scomparso a Senigallia nel marzo del 2020.
Giorgia Mecca, nata a Torino nel 1989, scrive per il quotidiano “Il Foglio”, per l’edizione torinese del “Corriere della Sera” e con il suo libro “Serena e Venus Williams, nel nome del padre” edito da 66thand2nd si è aggiudicata il premio con la menzione speciale della giuria come miglior libro sul tennis. Un libro che racconta la storia di due giovani tenniste di colore e del sogno di loro padre: farle diventare le più grandi.
Diciassette capitoli racchiudono in questo libro la forza, la paura, la tenacia e anche la vergogna di credere in un sogno. Un sogno che il padre di Serena e Venus aveva già in serbo per loro ancor prima che nascessero e che ha ispirato la giovane giornalista torinese a farne un libro di successo. Giorgia Mecca nei suoi capitoli ci racconta come queste due tenniste un giorno abbiano dovuto smettere di essere sorelle e siano dovute diventare avversarie. Ripercorre numerose sfide, la prima di tante nel capitolo intitolato “18 gennaio 1998 – Venus 7-6 6-1” dove racconta il giorno in cui Venus e Serena, al secondo turno degli Australian Open, hanno iniziato a giocare una contro l’altra. Ma ripercorre anche un’infanzia a tratti molto difficile e una storia di famiglia, più unica che rara. Questa la citazione più celebre del libro premiato: “Sono state nere in un mondo di bianchi, potenti in uno sport elegante, urlanti in un campo che richiede silenzio. Sempre dalla parte sbagliata. Per provocazione (loro), e per pregiudizio (altrui). Nel nome del padre due figlie sono state le prime afroamericane con la racchetta in mano, per non essere le ultime”.
Dopo aver elogiato il famoso giornalista sportivo Gianni Mura, la giornalista torinese, commossa e felice, ha chiuso così il discorso di ringraziamenti per aver ricevuto il premio: “Se anche loro si sono concesse di cadere qualche volta, forse dovremmo imparare a concedercelo tutti ogni tanto”.
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Esce oggi “Il Grande Libro di Roger Federer”, 542 pagine con il racconto (e i dati) dei giorni più memorabili del fenomeno svizzero
Stagione per stagione l’autore Remo Borgatti ripercorre tutta la sua straordinaria carriera. Tutti i suoi incontri, curiosità e statistiche, anche in rapporto alle caratteristiche tecniche degli avversari, da Nadal a Djokovic, Murray e Wawrinka, a seconda delle superfici

IL GRANDE LIBRO DI ROGER FEDERER
AUTORE: REMO BORGATTI
PAGINE: 542
EURO: 24,00
EDITORE: ULTRA SPORT

Autore del libro è Remo Borgatti, uno dei primissimi collaboratori di Ubitennis. Suo è il racconto ‘Uno contro tutti’ che ripercorre l’avvicendarsi di tutti i numeri 1 della storia del tennis, pubblicato a puntate su Ubitennis. Lo potete trovare a questo link.
Tra le sue rubriche c’è anche ‘Mercoledì da Leoni’, racconti di imprese più o meno grandi compiute da tennisti non particolarmente noti al grande pubblico. La serie la potete trovare a questo link.
Di Roger Federer, nel corso della sua lunga e meravigliosa carriera, si è detto e scritto di tutto. Il ritiro ufficiale, avvenuto durante lo svolgimento della Laver Cup di Londra, ha soltanto messo la parola fine a una vicenda umana e agonistica che ha cambiato per sempre la storia del tennis e più in generale dello sport. Nel volume dal titolo “IL GRANDE LIBRO DI ROGER FEDERER” (Ultra Edizioni, 542 pagine, 24 Euro), Remo Borgatti ha raccolto ed elaborato tutti i risultati e i numeri fatti registrare dal campione elvetico. Il libro è sostanzialmente diviso in due parti. Nella prima, ricca di testo, viene passata in rassegna tutta la carriera di Federer stagione per stagione e nei suoi 150 giorni più significativi. Nella seconda, vengono elencati in ordine cronologico tutti gli incontri disputati nel circuito e negli slam, con tanto di statistiche e percentuali, oltre a una serie di tabelle analitiche che vanno a sviscerare anche gli aspetti più curiosi ed inediti, come ad esempio il bilancio vinte-perse in base alla superficie e alla categoria del torneo, o in base al seeded-player degli avversari o dello stesso Federer, o ancora in base alla mano (destro o mancino) e al rovescio (una o due mani) degli avversari. Poi c’è altro, molto altro. Probabilmente c’è tutto quello che un tifoso o un appassionato vorrebbe sapere su “King Roger” e che forse nemmeno Federer conosce così bene. Certo, nell’era di internet e del web molti di questi dati (ma non tutti) si trovano anche in rete e vien da chiedersi quale sia lo scopo di un lavoro del genere. Ma pensiamo che la risposta sia semplice e venga dalla passione e dalla volontà da parte dell’autore di analizzare e svelare il fenomeno-Federer mediante le sue cifre, data l’evidente impossibilità di spiegarlo attraverso i numeri che ha fatto sui campi di tennis di tutto il mondo.
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John Lloyd, intervistato da Scanagatta, presenta l’autobiografia “Dear John” [ESCLUSIVA]
Intervistato in esclusiva per Ubitennis, l’ex-tennista britannico Lloyd si racconta tra aneddoti e ricordi. “Avrei dovuto vincere quel match” a proposito della finale all’Australian Open con Gerulaitis

L’ex tennista britannico John Lloyd, presentando la sua autobiografia “Dear John”, viene intervistato in esclusiva dal direttore Ubaldo Scanagatta e racconta tanti aneddoti relativi alla sua carriera, inclusi i faccia a faccia con l’Italia in Coppa Davis. Le principali fortune di Lloyd arrivarono in Australia dove raggiunse la finale dello Slam nel 1977: “All’epoca era un grande torneo ma non come adesso” ricorda il 67enne Lloyd. “Mancavano molti tennisti perché si disputava a dicembre attorno a Natale, ma ad ogni modo sono arrivato in finale. Avrei dovuto vincerlo quel match” – ammette con franchezza e una punta di rammarico – “ho perso in cinque set dal mio amico Vitas (Gerulaitis). Fu una grande delusione ma se dovevo perdere da qualcuno, lui era quello giusto. Era una persona fantastica”.
Respirando aria di Wimbledon, era impossibile tralasciare l’argomento. Lo Slam di casa fu tuttavia quello che diede meno soddisfazioni a Lloyd, infatti il miglior risultato è il terzo turno raggiunto tre volte. “Sentivo la pressione ma era davvero auto inflitta, da me stesso, perché giocavo bene in Davis e lì la pressione è la stessa che giocare per il tuo paese” ha spiegato l’ex marito di Chris Evert. “Ho vinto in doppio misto (con Wendy Turnbull, nel biennio ’83-’84) ed è fantastico ma sono sempre rimasto deluso dalle mie prestazioni lì. Ho ottenuto qualche bella vittoria: battei Roscoe Tunner (nel 1977) quando era testa di serie n.4 e tutti si aspettavano che avrebbe vinto il torneo. Giocammo sul campo 1. Ma era una caratteristica tipica delle mie prestazioni a Wimbledon, fare un grande exlpoit e poi perdere il giorno dopo. In quell’occasione persi contro un tennista tedesco, Karl Meiler”. In quel match di secondo turno tra i due, Lloyd si trovò due set a zero prima di perdere 2-6 3-6 6-2 6-4 9-7. Insomma cambieranno anche le tecnologie, gli stili di gioco, i nomi dei protagonisti… ma certe dinamiche nel tennis non cambieranno mai.