Berettini non si ferma più. Rimonta da urlo per battere Simon (Ubaldo Scanagatta, La Nazione)
Che a Matteo Berrettini faccia bene l’aria di montagna? Dopo l’exploit di Gstaad con il primo torneo conquistato a seguito di 5 vittorie senza macchia, né set né servizi perduti, è arrivata a Kitzbuhel in rimonta e nel modo più complicato a dimostrazione di un gran carattere, la sesta vittoria consecutiva, 16, 63, 64. A spese di un vecchio marpione, il francese Gilles Simon, n. 40 Atp (ex n. 6), che ha vinto il primo set 6-1 e poi è stato avanti anche 2-0 nel terzo. E’ il successo n. 5 su un top-50 nell’ultimo mese e ormai la sua attuale classifica, n. 54, gli sta stretta. Una legge non scritta del tennis dice che, di solito, chi vince un torneo alla domenica, sooprattutto se è la prima, perde già al martedì nel primo turno del torneo successivo. Ne sanno qualcosa Fognini e Cecchinato, campioni due domeniche fa e k.o. al martedì. Berrettini invece ha superato la “prova del nove”. Eppure aveva cominciato come peggio non poteva. Subito due servizi persi, uno choc per lui che a Gstaad ne aveva tenuti 49 di fila. Sotto 4-0 in un baleno, 6-1 in 21 minuti. Matteo, senza il servizio, era molto più teso del solito. Poi è stato bravissimo a reagire alla perdita del primo set strappando subito la battuta nel secondo game del secondo set a Simon, che a Wimbledon lo aveva battuto in 3 set: 2-0 e break tenuto fino in fondo, con un altro sul 5-3. Nel terzo, nuova aspra salita. 0-2. Poi però 4 game di fila, servendo in Austria come in Svizzera, mulinando dritti terrificanti e Simon che via via si spegneva come una candela. Matteo condiva il tutto con smorzate deliziose. Al secondo turno affronterà il moldavo Radu Albot, n. 98, che a Gstaad aveva battuto 64, 62 al primo turno. Stavolta avrà tutto da perdere. Situazione insolita per lui, ma che capita ai più forti. Chapeau Berrettini.
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Ancora Berrettini: test superato contro Simon (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)
La sbornia da primo trionfo dura mezz’ora, il tempo per Simon di mettersi in tasca il primo set senza faticare e per Berrettini di prendere un warning per una pallina scagliata in tribuna e capire com’è il nuovo mondo da giocatore top. Poi Matteo ritrova il servizio e il dritto, le armi che gli hanno regalato i momenti magici di Gstaad e soprattutto disinnesca la solita ragnatela del francese, numero 40 del mondo, che ti fa sempre giocare una palla in più e che l’aveva battuto a inizio mese mandandolo ai matti con quegli scambi che non finiscono mai e le gambe sempre in movimento. Per Berrettini non si trattava di un esame semplice, sia per le qualità dell’avversario sia per la difficoltà di metabolizzare in fretta un trionfo, quello svizzero, che comincia a cambiarti la carriera. Kitzbuehel, tra l’altro, per caratteristiche si avvicina molto a Gstaad, perché pure in Austria si gioca in altura. Sarà l’ultimo viaggio sulla terra rossa di Matteo, raggiunto pure da coach Santopadre, prima della trasferta americana: «Comunque vada qui — racconta l’allenatore — si prenderà qualche giorno di stacco, fin qui è stata una stagione molto dispendiosa e in un certo senso inattesa, perciò salteremo i Masters 1000 di agosto e giocheremo Winston Salem prima degli Us Open». Oggi al secondo turno l’azzurro trova Albot, il moldavo n. 98 battuto al primo turno di Gstaad. E’ già sul cemento, invece, Thomas Fabbiano, che nel torneo messicano di Los Cabos (c’è anche Fognini) fatica non poco per venire a capo del qualificato dello Zimbabwe Takanyi Garanganga, 451 del mondo, che non sarà un fenomeno ma è attivamente impegnato nella (difficile) promozione del tennis nell’Africa subsahariana. Il pugliese adesso trova il bosniaco Dzumhur, testa di serie numero tre del torneo.
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Un’amazzone con la racchetta. Le vittorie di Lucia Valerio (Gianni Clerici, La Repubblica – Milano)
Nel 1926 Suzanne Lenglen giocò al Tennis Milano con Rosetta Gagliardi e con Giulia Perelli, che invano tentava di rivaleggiare con la diva, abbigliata da ardite toilettes di Patou. Il suo tennis superiore la spinse ad esibirsi anche insieme agli uomini, a Cesare Colombo, campione italiano nel 1919 e a Placido Gaslini. Era, il giovane Gaslini, un inesausto “coureur”, quel che adesso chiameremmo playboy. Nell’intimità la Lenglen lo vezzeggiava “mon Champion du monde”, affermazione che non riguardava soltanto l’attività sportiva ma, più genericamente, quella motoria. Papà Gaslini, noto banchiere, era stato anche lui un tennista, accanitissimo a frequentare i campi di Premeno, “piccola Wimbledon italiana”, dove i Gaslini tenevano villa. Il figlio era un ottimo atleta, scattista universitario, il primo tennista milanese a raggiungere la notorietà internazionale che era sfuggita a Suzzi, campione italiano nel dodici e nel tredici, e a Cesare Colombo, incapace di vincere un solo match in Coppa Davis. Ad aiutare Placido, nella sua avventura tennistica, fu il barone Hubert de Morpurgo, ex austriaco triestino, divenuto italiano e capace di classificarsi tra i migliori dieci del mondo. Sotto la direzione di Morpurgo la nostra squadra di Davis raggiunse due volte la finale interzona, e cioè il turno precedente il challenge round, la sfida al detentore della Coppa. Gaslini giocò abitualmente a fianco del Barone, in doppio, mentre in singolare gli fu quasi sempre preferito il nobiluomo veronese Giorgio De Stefani, il primo tennista ambidestro visto sui court. Placido ebbe tuttavia il suo momento di gloria proprio sui campi di casa, quando batté, nella Davis 1928, il cecoslovacco Mecenauer, in un ambiente sconvolto dalla presenza dei tifosi da San Siro. Non potevano non divertirsi, quegli inesperti tifosi, ai dialoghi, alle baruffe tra Gaslini e il terribile Barone, al quale il timido De Stefani rivolgeva a stento la parola. «Barón, reste de ton cote’!», si disperava Placido in francese, quando questi si attentava a rubargli qualche palla. «Cosa credi di fare, soltanto perché hai la fortuna di giocare in misto con me!». Insieme a Gaslini e agli altri campioni dei tempi, de Morpurgo partecipò ai primi campionati Internazionali d’Italia, che Bonacossa organizzò nel 1930, sul magnifico Centrale costruito l’anno precedente. Dopo le esibizioni della divina Suzanne, e di Helen Wills, i milanesi poterono addirittura ammirare il campione del mondo Big Bill Tilden. Tilden era un genio del gioco, e insieme un tipo dai gusti particolari. Sempre circondato da ragazzi queruli e golosi, Bill amava eleggere i migliori a suoi partner, in doppio. A Milano si portò in campo un sedicenne, Cohen, che sollevò l’ilarità e qualche pesante commento di Morpurgo. Tilden capì, e se la legò al dito. Nella finale del singolo si accanì non solo a battere ma ad irridere il Barone, lasciandogli cinque soli game. Raccattapalle di quella finale era stato un bambino, col quale Big Bill aveva scambiato qualche colpo, predicendogli un glorioso futuro! Ritroveremo Renato Bossi in Coppa Davis. La fondazione del grande club, l’esempio di tanti campioni stranieri, aveva messo in moto altri circoli milanesi, sollecitate fresche ambizioni. Figlia d’arte, di quel Guido che aveva vinto i campionati cittadini, Lucia Valerio non riuscì a trovar rivali in Italia per dieci lunghi anni, nei quali vinse e rivinse i campionati nazionali, concedendo un numero ridicolo di games. Lucia era venuta tardi al tennis. Montava a cavallo, tirava di scherma, a Roma, sotto la guida del grande Agesilao Greco. Fu quindi un’atleta già fatta che prese a colpire pesantemente la palla, di diritto e di rovescio, con un accanimento che le consentì di recuperare presto il tempo perduto. Era un’inesausta regolarista, atleta naturale e per di più allenatissima, una campionessa che poteva essere battuta soltanto da tenniste più ispirate, più geniali, che diversamente da lei, non giocassero soltanto di rimbalzo, Lucia ottenne ottimi risultati sui prati di Wimbledon. Due volte vinse il Plate, il torneo degli eliminati, e si issò addirittura ai quarti di finale. Vi perse molto dignitosamente da Dorothy Round, due volte vincitrice del torneo. Non un solo un raffreddore, non una minima indisposizione, invocati dalle avversarie, impedirono alla cocciuta Lucia di vincere il titolo nazionale per qualcosa come dieci anni consecutivi, sino al 1935.