Berrettini settebello (Cocchi). Sinner suona la carica degli azzurri (Mastroluca). Vienna tricolore. Sinner è carico (Bertellino). Billie Jean King: "Donne, alzate la testa. La partita non è finita" (Audisio)

Rassegna stampa

Berrettini settebello (Cocchi). Sinner suona la carica degli azzurri (Mastroluca). Vienna tricolore. Sinner è carico (Bertellino). Billie Jean King: “Donne, alzate la testa. La partita non è finita” (Audisio)

La rassegna stampa di mercoledì 27 ottobre 2021

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Berrettini settebello (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

Nell’anno di grazia 2021, quello che forse sempre e per sempre sarà ricordato come il più munifico in quanto a risultati sportivi, un giovane romano di 25 anni di nome Matteo Berrettini si qualificava per la seconda volta alle Atp Finals da numero 7 del mondo. Mai nessun tennista italiano prima di lui ci era riuscito, confermando lo stato di grazia suo e del tennis azzurro. Un risultato frutto della consapevolezza maturata dopo due anni dall’esplosione del 2019, quando da top 60 era riuscito in una scalata splendida quanto poco pronosticabile. Stavolta ogni cosa e diversa, a partire dalla sicurezza nei propri mezzi. Berrettini non si sente più “imbucato” tra i fenomeni, ma pienamente inserito nel club dei migliori: «Ora sono un uomo e un giocatore diverso rispetto a quello di due anni fa. Ho imparato molte cose, anche dalle sconfitte e dalle delusioni, e con loro sono cresciuto». Lui è un tipo a cui piace volare basso, ma alle Atp Finals di Torino stavolta non ci andrà a fare la comparsa, quanto per provare a vincerle. Non solo. A Torino ci sarà anche la Coppa Davis. Un gruppo azzurro mai così solido che per la prima volta vedrà anche Jannik Sinner, fresco di numero 11 al mondo e ancora in corsa per il Masters: «Gli ho fatto i complimenti – ha detto Matteo dopo la partita vinta con Popyrin a Vienna (oggi secondo turno contro Basilasvili)-. È un giocatore impressionante, gioca come un veterano e brucia le tappe con una velocità pazzesca. Quando mi sono allenato con lui la prima volta ho capito che non era un giocatore come tutti gli altri». Berretto all’età di Sinner era ancora lontano dal fare risultati sul circuito, frenato anche da una serie di guai fisici che ne hanno rallentato la corsa. Gli infortuni, nel bene e nel male, sono stati anche importanti per la maturazione di Matteo, da subito abituato a fare i conti con lunghi stop e riprese: «Mi hanno insegnato ad avere pazienza. Che alcune cose della vita vanno semplicemente accettate e non possono essere cambiate, mi hanno insegnato che non ci vuole fretta». […] Alle Finals ci andrà con velleità totalmente diverse da quelle con cui si presentò a Londra nel 2019: «Per lui era tutto nuovo – afferma il coach Santopadre – , in un certo senso si può dire che avesse bruciato le tappe. Anche fisicamente ci arrivò logorato». Nel team, da circa un anno, c’è anche Ivan Ljubicic. Il croato è il suo manager, ma con un passato glorioso sul campo e un presente da tecnico di Roger Federer, e impossibile non approfittare anche della sua esperienza: «Ivan è molto rispettoso – spiega Santopadre -, non interferisce con i nostri programmi, ma quando gliela chiediamo è sempre disponibile a darci la sua opinione o qualche consiglio. Ci dice sempre di avere pazienza, che Matteo crescerà ancora. Finalmente Matteo ha potuto dimostrare a tutti che merita pienamente la sua posizione in top 10. Negli Slam ha perso solo da Djokovic, uno che è arrivato a una sola partita dall’eguagliare Laver. Ora la seconda qualificazione alle Finals. Insomma, non per tirarsela ma Matteo sta riscrivendo la storia del nostro tennis».

Sinner suona la carica degli azzurri (Alessandro Mastroluca, Corriere dello Sport)

Vienna ti aspetta, canta Billie Joel. E insegna a non volere troppo prima del tempo. Lo sa già Jannik Sinner, che apre oggi il programma del Centrale (ore 14) in una giornata molto azzurra con cinque italiani in campo. Il neo numero 11 del mondo inizia il suo percorso contro Reilly Opelka, consapevole che raggiungere la semifinale gli può consentire di superare Hubert Hurkacz nella Race to Turin. E aumentare così le sue chance di diventare il secondo italiano alle Nitto ATP Finals dopo Matteo Berrerrini. Il romano, già matematicamente qualificato e primo azzurro a disputarle due volte nella storia del gioco, chiuderà invece il programma del campo principale nel match di secondo turno contro il finalista di Indian Wells Nikoloz Basilashvili. Per chi vince, in palio un quarto di finale contro l’ex numero 1 del mondo Andy Murray o il miglior teenager in classifica, lo spagnolo Carlos Alcaraz. Il primo a scendere in campo è Lorenzo Sonego che a Vienna dodici mesi fa ha raggiunto la finale da lucky loser. Il torinese ha vissuto qui una settimana da favola, in cui ha dominato anche un Novak Djokovic in versione, va detto, molto sbiadita. Stavolta un lucky loser lo troverà dall’altra parte della rete: è il tedesco Dominik Koepfer. Il primo confronto Musetti-Monfils (sul Centrale dopo Sinner) promette di regalare spettacolo in abbondanza. Chi vince, sfiderà negli ottavi Fognini o Schwartzman.

Vienna tricolore. Sinner è carico (Roberto Bertellino, Tuttosport)

Colori azzurri in primo piano oggi nell’ATP 500 di Vienna, che assegna punti pesanti in chiave Atp Finals di Torino. Alle 14 aprirà il programma sul centrale la sfida tra Jannik Sinner e Reilly Opelka, americano dal servizio devastante. I due non si sono mai incontrati ma Sinner è in grande forma: «In Belgio ho risposto molto bene – ha sottolineato il 20enne azzurro – e contro Opelka dovrò fare altrettanto cercando di disinnescare la sua arma in più. Contemporaneamente sarà importante continuare a servire con le variazioni e le percentuali raggiunte ad Anversa». A seguire sarà Lorenzo Musetti (wild card) a cercare la vittoria eclatante contro l’esperto francese Gael Monfiils. Anche in questo caso nessun precedente tra i due giocatori. La sequenza sul centrale proporrà poi il testa a testa quasi generazionale tra Andy Murray e il 18enne iberico Carlos Alcaraz. In chiusura di programma Matteo Berrettini andrà a caccia dei quarti di finale confrontandosi con il georgiano Nikoloz Basilashvlli, finalista a Indian Wells. Sul “centralino” attorno alle 13.30 farà il proprio esordio in torneo Lorenzo Sonego, chiamato a difendere la finale dello scorso anno quando in una rassegna per lui incredibile sconfisse nei quarti e nettamente anche il n. 1 del mondo Novak Djokovic. Sonego, dopo il forfeit di Garin per un problema alla spalla, troverà il tedesco Koepfer, 27enne n.62 Atp. Infine spazio, sullo stesso campo, a Fabio Fognini e Diego Schwartzman, con l’argentino fresco di finale persa ad Anversa contro Sinner.

Billie Jean King: “Donne, alzate la testa. La partita non è finita” (Emanuela Audisio, La Repubblica)

Ha giocato, magnificamente, ma soprattutto ha cambiato il gioco. Delle donne e del mondo. Con una racchetta ha capovolto leggi, mentalità, gerarchie. E ha vinto la partita. Dentro e fuori dal campo. Per capirci: 39 Slam (fra singolare, doppio e misto), compresi i 20 a Wimbledon. Ora lo racconta in un’autobiografia, Tutto in gioco (La Nave di Teseo), e a voce. Billie Jean King, americana, il 22 novembre compirà 78 anni. Lei inizia con una citazione del giudice Ruth Bader Ginsburg. «Sì, era una donna che stimavo molto. La frase è: combatti per quello a cui tieni, ma fallo in un modo che spinga gli altri a unirsi a te. Ribellarsi è giusto, ma è meglio farlo in squadra. Io ho sempre amato giocare con e per le altre. Quando nel ’70 con otto altre tenniste, il gruppo delle Original 9, abbiamo iniziato il circuito femminile, per un dollaro di paga, siamo state coraggiose. C’era il rischio di fallire, di essere cancellate, di perdere tutto. Andavamo contro un sistema, voluto e mantenuto dagli uomini. Senza aperture. Dove una moglie per avere un libretto degli assegni doveva avere la garanzia del marito. Vincerai perché sei brutta, mi disse Frank Brennan, che pure era amico mio e credeva in me. Togliti, non puoi fare la foto del torneo con gli altri perché hai i pantaloncini e non la gonna, mi rimprovero il direttore del circolo tennis di Los Angeles. Nessuna di loro ha la barba, scrisse di noi Jim Murray, che era un premio Pulitzer. Jack Kramer ebbe la faccia tosta di sostenere che quando giocavano le donne, gli spettatori andavano in bagno. Karen Hantze Susman veniva sminuita con la citazione “la casalinga ventenne che vince Wimbledon”. Questi erano i commenti dell’epoca. L’associazione dei tennisti professionisti, da Ashe a Stolle, non ci voleva, eppure erano miei compagni. Ma non c’era niente da fare: gli uomini ci sbarravano la strada. Potevano, gli era permesso».

Dal dollaro al premio di 3 milioni a Naomi Osaka agli Open Usa 2020.

Lo stesso che ha preso Dominic Thiem tra gli uomini. Il merito è di noi pioniere. Oggi le nuove generazioni non sanno niente della storia prima di loro. Delle fatiche e delle conquiste. Non si interessano. Si lamentano perché vogliono più soldi, ma sono ignoranti. Nessuno che le istruisca. Anzi i manager e chi si occupa di loro vogliono che restino così: cara, pensa al gioco, non preoccuparti di altro. Eh no, io voglio sapere cosa c’è sotto e dietro all’organizzazione del gioco. Voglio poter contare, parlare con chi decide, conoscere le logiche commerciali. Avrei voluto studiare legge, anche se a tennis mi sono laureata piuttosto bene. Io dal 2018 faccio parte del gruppo dei proprietari dei Los Angeles Dodgers. Non ho mai avuto paura di affrontare gli uomini sul loro terreno. A queste ragazze dico: imparate a fare trattative, sappiate che la parola compromesso a volte può essere meno peggio di quello che sembra, alzate la testa, interessatevi a quello che capita attorno a voi: dall’emergenza climatica alle ingiustizie alle discriminazioni. Non è mai troppo vero che quelle cose non c’entrano con il gioco.

Lei scrive anche dell’Italia.

Vi adoro, nonostante tutto. Nel 1970 agli Internazionali di tennis in Italia il vincitore prendeva 7.500 dollari, la donna 600. La disparità era 12 a 1. Vinsi e protestai, la risposta fu: se non vi piace, non tornate. La mia ultima volta fu a Perugia nell’82. Non sono mai stata così incoraggiata dal pubblico, come da voi. Dai, dai, mi urlavano. Ecco il chiasso, i cuscini che volavano in campo, gli schiamazzi, tutti che mi volevano toccare. Io non sono per il silenzio, mi piace sentire gli umori, il calore. Non vengo dai club aristocratici, ma dai parchi pubblici. Mio padre era pompiere, mia madre casalinga. Lavoravo per mantenermi, anche se già avevo vinto Wimbledon. Noi siamo performer, il nostro spettacolo è per il pubblico. Sono onesta, lo ammetto, mi piace il tifo dei fans, pure sguaiato. E guardate com’è in alto ora il tennis italiano, Fognini, Berrettini, Sinner. Avete una generazione piena di futuro. A New York nel 2015 ho parlato con il vostro premier Matteo Renzi dopo la fmale Pennetta-Vinci. Mi disse: non ha idea di quello che significa per noi e per lo sport che due ragazze del sud siano arrivate fino a qui a giocarsi il mondo. Ho ammirato anche il volto dolente e umile di Francesca Schiavone quando si è presa gli Open di Francia. Senza dimenticare Lea Pericoli.

La battaglia sull’equità salariale oggi?

Resta importante. I soldi danno scelta, opportunità, indipendenza. Qualità e organizzazione. Althea Gibson, la prima afroamericana a vincere un titolo del Grande Slam diceva: i trofei non si possono mangiare. Quando avevo 10 anni mia madre mi mostrò il bilancio familiare e mi fece capire che tutto ha un costo. Novak Djokovic è a capo della Professional Tennis Players Association dove si parla solo di esigenze maschili e poco delle donne. Ci risiamo, verrebbe da dire. Tante impiegate dichiararono che il mio successo su Bobby Riggs nella “Battaglia dei Sessi” nel ’73 le aveva incoraggiate a chiedere un aumento. Anche Obama mi ha confessato di aver visto quell’incontro e di averlo citato alle figlie. I soldi non sono una vergogna, né una debolezza, ma spesso un valore. Quindi sì, equal pay for equal work.

L’eredità più importante che lascia: è sul campo o fuori?

Fuori. È sociale. E quello che ho fatto fuori ha ostacolato la mia carriera. Ne parlavamo con Muhammad Ali, un amico. Avrei vinto di più se mi fossi limitata a giocare, ma forse non avrei migliorato un po’ il mondo. Ho lottato per far approvare “Title IX”, in modo che anche le donne potessero avere accesso alle borse di studio sportive. Nel 1973 nelle università 50 mila uomini ne avevano diritto, ma solo 50 ragazze. […]

Il momento più difficile?

Quando nell’estate del ’78, ricattata dalla mia ex, ho dovuto ammettere pubblicamente che amavo le donne. Persi subiti mezzo milione di dollari, gli sponsor mi lasciarono, anche quelli dell’abbigliamento sportivo, l’amministratore di un’azienda in una lettera mi chiamò puttana. È stata dura, ma la parte più difficile è stata fronteggiare la mia famiglia. Ce l’ho fatta con l’aiuto della mia psicanalista che mi ha fatto notare che dovevo smettere di far contenti gli altri. A 50 anni cercavo ancora di non contrariare i miei genitori, desideravo essere la brava ragazza, ma quella cosa mi stava rendendo la vita insopportabile. A 51 ho dovuto fronteggiare l’idea che il mio problema di peso, viaggiavo sui cento chili, era dovuto a disturbi alimentari che mi portavo dietro da ragazza e quindi mi sono ricoverata in una clinica. Ai giovani dico: chiedete aiuto, parlate dei problemi, non vergognatevi. Giocherete meglio quando vi sarete liberati.

Djokovic forse non andrà in Australia se sarà obbligatorio vaccinarsi.

Io ho fatto anche la terza dose. Pazienza, si farà il torneo senza Djokovic. Bisogna capire che la libertà non è libera. Impone responsabilità e consapevolezza. In questo caso verso la salute pubblica. Quando sei un personaggio famoso hai un dovere in più. Può non piacerti, ma è così. Freedom is not free.

Com’è stato raccontarsi?

Ci ho messo quattro anni. Ho dovuto tagliare, 800 pagine erano troppe. Sia chiaro, la mia vita continua, non intendo fermarmi. Sono stata fortunata, se nel ’54 in quinta elementare la mia amica Susan Williams non mi avesse chiesto: ti va di giocare a tennis?, non sarei qui. Alle donne dico: non piangete, organizzatevi. Bisogna ascoltare, coltivare alleati, e poi sferrare il colpo. La partita è ancora lunga, ma io la giocherò sempre.

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