Per sette volte è stato a un punto dal regalarsi ancora una giornata da giocatore, un’altra partita in una carriera da oltre 650 match. Alla fine, però, quando a Indian Wells erano quasi le otto di sera, è arrivato l’ultimo quindici e Steve Johnson non ha trattenuto le lacrime nell’uscire per l’ultima volta da un campo di tennis da professionista. Nato ad Orange in California, a mezz’ora da Los Angeles, aveva deciso che proprio il torneo californiano sarebbe stato l’ultimo della sua carriera e così con la sconfitta nel primo turno delle qualificazioni contro Emilio Nava – anche lui, guarda caso, californiano – Steve ha metaforicamente appeso la racchetta al chiodo.
Lo fa a 34 anni dopo 12 anni di professionismo straordinari nella loro ordinarietà: quattro titoli ATP (tutti di categoria 250) in bacheca e un best ranking di numero 21 del mondo raggiunto nell’estate del 2016 quando divenne anche il primo degli americani del ranking. Una soddisfazione non da poco, probabilmente davanti anche alla medaglia olimpica conquistata in quello stesso periodo a Rio in doppio con Jack Sock grazie alla vittoria nella finale per il terzo posto contro i canadesi Nestor e Pospisil. Sono stati indubbiamente quelli i mesi più appaganti della vita tennistica di Johnson che un anno dopo dovette però affrontare uno shock terribile: l’improvvisa morte del padre 58enne, avvenuta pochi giorni dopo il trionfo di Steve all’ATP di Houston.
“Avevo appena realizzato un sogno che condividevamo insieme, vincere un titolo negli Stati Uniti, e quello fu l’ultimo match che mi vide giocare. Mio padre non avrebbe voluto che abbandonassi tutto ed è per questo che mi sono rimesso in campo, anche se è stata una sofferenza. Ho iniziato a farmi prendere dal panico e ci sono stati momenti nei quali l’ansia era fuori controllo […] Lui è stato il mio primo coach: insieme condividevamo la passione per questo sport […] Quando certi sportivi perdono una persona cara, riescono a stare in pace praticando il loro sport, mentre io entrando in un campo da tennis mi sentivo fuori posto. Troppe cose mi facevano pensare a mio padre”. Così Steve ha raccontato le sue difficoltà, superate affidandosi a uno psicologo e alla terapia. E il tennis che si era trasformato in un incubo anche dopo vittorie sudatissime come quella su Coric al Roland Garros del 2017 – una delle prime dopo la morte del padre – è tornato ad essere semplicemente lo sport della sua vita, regalandogli nuove gioie come il secondo successo consecutivo a Houston.
Negli ultimi anni l’americano si è dovuto allontanare dal circuito maggiore per motivi di classifica trovando comunque gli stimoli giusti per superare i problemi fisici e ottenere diversi risultati importanti a livello Challenger. La scorsa estate, ad esempio, ha vinto due tornei che gli sono valsi il primo posto nella Wild Card Challenge per lo US Open, dove ha disputato l’ultimo Slam della carriera. L’ultima partita, invece, si è conclusa, come detto, in maniera beffarda: dopo aver vinto il primo set al tie-break, Steve – nel tabellone delle qualificazioni grazie a una wild card – era avanti 5-3 nel secondo ma ha prima sprecato un match point in risposta, poi uno al servizio, altri tre nuovamente in ribattuta e infine due nel tie-break. Quel che veramente importa, però, è che Johnson abbia ricevuto il tributo che meritava: dal connazionale Nava, dal giudice di sedia Bernardes e dal pubblico che lo ha applaudito mentre usciva dal campo accompagnato dalla moglie e dai due figli.
Per gli appassionati italiani, Johnson rimarrà il primo, storico avversario di Sinner che fece il suo esordio a livello ATP e al Foro italico proprio contro l’americano nel 2019. Lo batté in rimonta e annullando match point: una sconfitta cocente per Steve che però, tra i vari aneddoti della sua carriera, potrà raccontare di essersi trovato al posto giusto nel momento giusto per assistere alla nascita di un campione.