“Nomen omen” sentenziavano i latini, il nome è un presagio. E Il Masters è il torneo dei maestri.
I migliori otto tennisti del pianeta “l’un contro l’altro armati” in una guerra serrata che non perdona errori o distrazioni, chi vince è il più forte. Quasi sempre.
1970 – 1989, le origini e il Madison Square Garden
In principio furono gli anni settanta, quelli dei basettoni e del rock psichedelico ma anche della strage di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco e della crisi petrolifera.
Il primo Masters si giocò nel 1970 e in quel decennio di grandi speranze e delusioni enormi la parte del leone la fece un romeno di gran classe, giunto sul circuito da oltre cortina con una valigia, un fascio di racchette di legno e un collega baffuto, Ion Tiriac.
Ilie Nastase vinse quattro delle prime cinque edizioni del torneo, disputate in varie sedi prima di stabilirsi dal 1977 al 1989 al Madison Square Garden di New York, e rivoluzionò il mondo minore del tennis, ne sconvolse il perbenismo imperante e un tantino ipocrita con comportamenti mai visti sul rettangolo. Ma Ilie non era cattivo, aveva solo un gran senso dello spettacolo.
Nella sua biografia John McEnroe descrive il loro primo incontro.
US Open 1979, secondo turno, McEnroe-Nastase è l’ultimo match della serata e nessuno va via.
La partita è segnata ma Nasty è in vena, si aggiudica un set e fa impazzire il giudice di sedia che vorrebbe squalificarlo ma recede sotto il fitto bombardamento di oggetti da parte degli spettatori che vogliono vedere come andrà a finire. La partita termina ben oltre l’una di notte e negli spogliatoi Ilie gesticola verso Mac, “tu, io, mangiare”. John accetta e nasce un’amicizia.
A fine decennio sarà proprio Mac a raccogliere il testimone da Nastase vincendo il primo dei suoi tre Masters nel 1978. In lizza c’erano sei statunitensi piu soldatino Barazzutti e Raul Ramirez, messicano di talento ma troppo avvenente per spremerlo fino in fondo.
In una appassionante finale contro il gentleman Arthur Ashe McEnroe perde il primo set al tie-break, pareggia ma quando serve sul 4-5 del terzo Arthur va a match point e sulla classica curva esterna di John piazza una splendida risposta di rovescio. Sta alzando le braccia al cielo quando l’arbitro, con ritardo, chiama fuori la prima di servizio del suo avversario. McEnroe per l’unica volta nella sua vita accetta una chiamata avversa senza fiatare mentre Ashe domanda gentilmente all’arbitro se è sicuro.
È sicuro. Il destino ha deciso e Mac conquista tre giochi di fila e il trofeo.
Arriva il 1980, un ex attore hollywwodiano di b-movies diventa presidente degli Stati Uniti e l’otto dicembre Mark David Chapman placa la sua sete di notorietà freddando con cinque colpi di pistola John Lennon sulla soglia del Dakota Hotel di New York. Qualche giorno dopo e pochi isolati più in là tocca a Bjorn Borg aggiudicarsi il primo dei suoi due titoli consecutivi. L’orso di Sodertalje prevale in una combattutissima semifinale contro Connors e il giorno dopo annienta un giovane Lendl. Nessuno ancora lo sa ma Bjorn sta già meditando il ritiro, che di fatto arriverà al termine della finale persa nettamente contro McEnroe a Flushing Meadows 1981. Furono proprio Borg e Mac a trasformare definitivamente il tennis da sport d’élite in spettacolo planetario e la loro eredità sarà degnamente raccolta da una generazione di fenomeni.
Lendl, Wilander, Becker e Edberg regaleranno agli appassionati oltre dieci anni di sfide appassionanti, drammatiche e divinamente giocate. La sede del Masters rimane New York , ora la finale si gioca tre set su cinque ed è Ivan Lendl il dominatore del Madison con cinque successi.
Ma un re quando cade fa più rumore.
Nel 1988 il suo avversario in finale è Boris Becker, già sconfitto in due precedenti occasioni ma mai domo. I due si scambiano botte da orbi in oltre quattro ore di lotta all’ultimo sangue e quando inizia il quinto set sembrano entrambi Rocky all’angolo che dice a Mickey “Aprimi l’occhio, aprimi l’occhio”.
In un titanico scontro di volontà nessuno dei due molla un centimetro, sarà il tie break a decidere e lo farà in modo beffardo. Sul punteggio di 5-5 Boris mette tutto quel che gli rimane in un attacco che lo manda a servire per il match. Vuole l’ace ma è esausto, la prima palla muore a mezza rete. Su una timida seconda Ivan risponde e inizia uno scambio che non può essere dimenticato.
Lendl prende il comando e spinge col drittone anomalo sul rovescio di Boris che si difende con lunghe parabole in back. Contateli, sono 36 scambi tesi e drammatici, al termine dei quali il tedesco in apnea lascia partire un rovescio piatto e disperato, lo sguardo annebbiato dalla fatica.
Gli dei decidono con chi schierarsi, la pallina sbatte sul nastro all’altezza del cavo d’acciaio che regge la rete e rotola imprendibile di là.
È la fine, il primo piano sul volto di Ivan non ha bisogno di parole mentre Boris si limita ad alzare timidamente le braccia al cielo.
1990 – 1999, Becker porta i Maestri in Germania
Il 1990 saluta la fine dell’Apartheid in Sudafrica con la liberazione di Nelson Mandela dopo 28 anni di carcere, muore Greta Garbo e viene interrotta la produzione dei 45 giri mentre scoppia la Guerra del Golfo, trasmessa in TV come Happy Days.
Sull’onda della popolarità di Boris Becker la sede del Masters trasloca dalla Grande Mela e si stanzia prima a Francoforte e poi ad Hannover. Ma Boris non è già più il Goat, il decennio che conduce al nuovo millennio ha un padrone e solo uno. Il suo nome all’anagrafe è Petros Sampras ma per noi sarà sempre Pistol Pete, senza nulla togliere all’originario titolare del soprannome, il compianto cestista NBA Peter Maravich, morto d’infarto su un playground nel 1988.
Dritto e smash devastanti, l’attacco a rete come unica ragione di vita, e il servizio, soprattutto il servizio. Pete giocava di fatto due prime, certamente mémore delle parole di Jack Kramer, per il quale il colpo fondamentale per un campione era proprio la seconda palla.
Sampras non ha ancora vent’anni quando inaugura il suo decennio d’oro vincendo gli US Open e prendendosi gli scalpi di McEnroe in semi e Agassi in finale. Fra poco non ce ne sarà più per nessuno.
Cinque titoli al Masters certificano il suo domìnio ma Boris dai grandi piedi non si arrende mai e nel 1996 arriva a tanto così dal detronizzare lo statunitense. Quell’anno il torneo dei maestri si gioca ad Hannover, dove morì il filosofo Wilhelm Leibniz, quello delle Mònadi (non chiedetemi cosa sono…).
Sampras e Becker arrivano alla resa dei conti, col tedesco che schiuma rabbia e ha già perso abbastanza nettamente la finale di due anni prima. Si gioca.
Boris parte come un razzo, vince il primo 6-3 e potrebbe anche andare due set a zero ma perde il tie break del secondo di un’incollatura e anche il terzo ha lo stesso andamento. Il tedesco è a tavoletta da oltre due ore, gioca magnificamente ma è sotto perché il tie break è il regno di Sampras.
Un uomo meno orgoglioso avrebbe mollato, non Boris che lotta con ogni cellula del suo corpo contro un tennis oggettivamente superiore e porta anche il quarto set al sei pari. Si intona già il De Profundis in tedesco quando un mini-break manda The Pistol a servire per la coppa ma un banale errore in palleggio dell’americano rimette tutto in discussione. Ora è Becker che va a set point con la battuta a disposizione ma Pete annulla con una risposta vincente. Le emozioni unite a malto e luppolo portano l’arena in ebollizione, Sampras annulla un’altra palla set con la prima di servizio e subito dopo va a rete a prendersi un secondo match point che spreca però con un dritto lungo.
Boris si vede annullare altre due occasioni per chiudere il set da una gran prima e un super passante incrociato in corsa ma ha la forza di procurarsi una quinta opportunità e questa è la volta buona perché Pete mette incredibilmente fuori una facile volée.
Il pubblico in visibilio spinge il proprio alfiere ma Becker non ne ha più e a Sampras basta un break per conquistare la sua terza corona di Maestro. Lo statunitense chiuderà il decennio con altri due titoli vinti nel 1997 contro Kafelnikov e nel 1999 contro Agassi.
Ma il nuovo millennio è alle porte e reca con sé un dominatore assoluto.
2000 – 2015, il nuovo millennio e il suo padrone
Gli anni 2000 partono col terrore del “bug”, rivelatosi poi una bufala e in Italia viene stampata l’ultima banconota in lire. Va in onda la prima edizione del “Grande Fratello”, George Orwell si rivolta nella tomba e “Il Mattatore” Vittorio Gassman muore a Roma in estate.
Nel tennis il cambio della guardia ha una data e un luogo precisi.
Il 2 luglio 2001 Pete Sampras affronta negli ottavi di Wimbledon un ragazzino svizzero col codino e qualche residuo brufolo adolescenziale. Con pathos crescente il pubblico del Centre Court assiste ad una partita non bella ma storica e quando nel dodicesimo gioco del quinto set Roger strappa battuta e incontro al re con una risposta di dritto lungolinea erompe in un lungo oooh di meraviglia.
Federer è erede e custode dei dettami classici del gioco e dopo un paio di stagioni di assestamento imbocca la strada che lo condurrà ad essere considerato fra i più grandi di sempre. Roger fonde mirabilmente il bello con l’utile, non gli basta vincere ma vuole farlo in un certo modo e questo atteggiamento sarà paradossalmente il suo grande limite.
Ecco il parere di Agassi all’apparire del nuovo sovrano.
“Contro Federer, non ho una zona del campo dove rifugiarmi nei miei momenti di difficoltà. Con Sampras, ad esempio, era diverso: potevo trovare un po’ di respiro giocandogli sul rovescio”
Dal 2003 in poi lo svizzero vincerà tutto, frustrando i sogni di grandezza di chiunque e rimanendo competitivo anche contro i fenomeni della nuova generazione come Nadal e Djokovic, che lo hanno contrastato costringendolo a colpire sempre una palla in più e a pensare maggiormente durante lo scambio, tutte cose poco gradite a chi è dotato di gran talento.
Roger con i suoi sei titoli è il Maestro dei maestri ma nella finale del 2005 perde in finale da David Nalbandian una partita da lettino psicanalitico. L’argentino è stato un gran tennista, dotato di potenza e tocco in pari grado ma problemi fisici e di continuità ne hanno limitato la carriera.
Roger è ai suoi massimi ma il 20 novembre 2005 sul sintetico di Shanghai sarà David ad abbattere sorprendentemente il Golia elvetico a colpi di fionda.
Federer vince i primi due set solo al tie-break, il secondo per 13 punti a 11, e lo sforzo inaspettato apre crepe preoccupanti nella sua corazza scintillante. Nalbandian non cede, gioca alla grande e riporta in pari il punteggio aggiudicandosi terzo e quarto set con un parziale di 12 giochi a 3.
Si va al quinto ma Roger non riesce più a scrollarsi di dosso l’avversario che ora ci crede e non molla una palla che sia una. È ancora il tie-break a decidere le sorti dell’incontro ed è l’argentino ad aggiudicarselo nettamente contro un Federer in piena crisi di fiducia. Questo è il tennis, prima non lo sai mai.
I nove anni seguenti sono cronaca dei giorni nostri, con quattro successi per parte di Roger e Nole e l’unica clamorosa intromissione di Nikolaj Davydenko, re per un giorno nel 2009.
E la storia continua.