Nei dintorni di Djokovic: Ana dei miracoli. Piccoli e grandi

Nei dintorni di Djokovic

Nei dintorni di Djokovic: Ana dei miracoli. Piccoli e grandi

Ana Konjuh aveva un sogno: le Olimpiadi di Rio. Ma la drammatica sconfitta al II turno di Wimbledon e l’infortunio alla caviglia sembravano averle tolto ogni possibilità. Invece grazie ad un rapidissimo recupero e a diversi forfait è riuscita a strappare il biglietto per Rio. Un piccolo miracolo per una ragazza che ad un grande miracolo aveva assistito anni prima

Pubblicato

il

 

Ana Konjuh è in questo momento la grande promessa del tennis croato femminile. La 18enne di Dubrovnik, attualmente n. 98 WTA, ha avuto un periodo di appannamento a cavallo tra il 2015 ed il 2016, ma di lei si continua a dire un gran bene.

Di Ana si inizia a sentir parlare tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, quando a 15 anni ancora da compiere (è nata il 27 dicembre 1997) conquista in sequenza l’Eddie Herr international e l’Orange Bowl, i due prestigiosi tornei juniores che si disputano a fine anno in Florida e che sono stati spesso garanzia, per i vincitori, di un futuro luminoso nel tennis professionistico.
Il mese dopo Konjuh vince gli Australian Open juniores, sia in singolare che in doppio, e sale al primo posto della classifica mondiale under 18. A febbraio un altro exploit: convocata in Fed Cup, batte la polacca Ursula Radwanska, al tempo n. 37 delle classifiche mondiali.
Goran Ivanisevic, intervistato in quel periodo, profetizza: “Non so cosa possa accadere per impedire ad Ana diventare una top 10. E non mi ricordo di aver mai sbagliato una previsione”. In settembre la giovane dalmata vince il suo secondo Slam juniores in singolare, gli US Open, e decide di dedicarsi esclusivamente al circuito WTA.

Decisione che sembra avveduta: nel 2014 Ana parte subito battendo Roberta Vinci ad Auckland e poi nel suo primo Slam tra le “grandi”, a Melbourne, supera le qualificazioni ed entra nel main draw, dove viene sconfitta in quattro set dalla futura vincitrice Na Li.
Purtroppo però un problema al gomito la costringe ad operarsi e a stare ferma per ben 4 mesi. Ma Ana non si scoraggia (“Sapevamo da due anni che prima o dopo avrei dovuto operarmi” ha raccontato in un’intervista al rientro) e riparte, continuando nella sua graduale crescita: nell’ottobre 2014 entra nella top 100, nel giugno 2015 conquista il primo titolo WTA, sull’erba di Nottingham, e raggiunge il suo best ranking al n. 55.

 

Da qui un leggero momento di flessione, spesso fisiologico a quell’età, come ha spiegato la stessa Konjuh in una recente intervista.
“Il passaggio da junior a senior è molto difficile, molte giocatrici si “perdono”, alcune non ce la fanno proprio. Oggi ci sono pochissime giocatrici che hanno meno di vent’anni tra le prime cento del ranking WTA. Più si va avanti, più è difficile salire in classifica. Io so che devo crescere mentalmente e che per questo mi serve anche, probabilmente più di tutto, fare esperienza. Ad esempio, sul 4 pari al terzo, vantaggio pari, una giocatrice esperta non sbaglia, noi giovani sì. Questi sono i dettagli che fanno la differenza. E la parte mentale è quella più impegnativa: tutte sanno giocare a tennis, ma emerge chi è più forte di testa. Io voglio arrivare in cima. Spero di farcela presto.”

Per uscire da questa fase di stallo, ad aprile la tennista dalmata ha cambiato coach. Ora è seguita dalla ex giocatrice croata Jelena Kostanic-Tosic (n. 32 WTA nel 2004), che ha preso il posto dello storico allenatore di Ana, Christian Schneider.
“Con Christian abbiamo lavorato insieme per sette lunghi anni, da quando mi sono trasferita a Zagabria. Eravamo un po’ saturi, entrambi. Ed entrambi abbiamo capito che non mi poteva più aiutare. La decisione è stata comune, siamo rimasti in buoni rapporti e ci sentiamo di tanto in tanto” ha spiegato l’ex numero 1 del mondo juniores, sempre nella stessa intervista, raccontando poi cosa c’è invece di diverso nella collaborazione con la 35enne spalatina.
Una cosa importante è che mi capisce perché è stata anche lei una giocatrice, può mettersi al mio posto, può mettersi nei miei panni. Ha molta comprensione e pazienza per questo. Sa anche che sono testarda e che lavorare con me non è facile, ma se la sta cavando bene”.

Da lì Ana è ripartita: a giugno, nella prima edizione del torneo WTA di Bol, nella sua Dalmazia, si è spinta sino in semifinale, dove però si è dovuto ritirare a causa di un infortunio alla schiena, dando via libera alla futura vincitrice Mandy Minella.
In luglio eccola sfiorare un’altra impresa, questa volta ai danni della Radwanska più famosa, Agnieszka, al secondo turno di Wimbledon. La giovane tennista croata ha infatti giocato alla pari l’intero match che la vedeva opposta alla n. 2 del seeding, andando anche a servire per il match nel terzo set. Poi sul 7 pari è scivolata in un recupero, a causa di una pallina, procurandosi una brutta distorsione alla caviglia destra.
“Ora non riuscirà neanche ad andare alle Olimpiadi“ è stato il commento a caldo del papà Mario dopo la sfortunata prestazione contro Aga. Ana infatti aveva il sogno di riuscire di partecipare ai Giochi Olimpici di Rio de Janeiro. E quella sconfitta – a cui si aggiungeva anche l’infortunio alla caviglia che sembrava dovesse costringerla ad un periodo di riposo non breve – pareva proprio mettere la parola fine a quel sogno, perché la teenager di Dubrovnik aveva bisogno di punti per salire in classifica (era n. 103 all’inizio dei Championship) ed avere la possibilità di entrare nel tabellone olimpico in caso di qualche forfait.
Aveva bisogno di un miracolo, Ana.
Di un miracolo sportivo, si intende, perché un miracolo vero e proprio lei sapeva benissimo cos’era: l’aveva visto accadere – davvero – solo pochi anni prima.

Era il 2012, qualche mese prima di quelle vittorie in Florida di cui abbiamo parlato all’inizio, quando d’improvviso la sorella Antonia si ammalò. Una malattia autoimmune, rarissima.
“Ci avevano detto che era incurabile. Giaceva immobile a letto e non poteva nemmeno parlare” raccontò qualche mese dopo il padre, che poi raccontò come in quel periodo tutta la vita della famiglia fu sconvolta da quanto stava accadendo.
“Sapete, la vita deve andare avanti, indipendentemente da come vi sentite dentro. In quel periodo della nostra vita, Antonia era la priorità. Ana andava ad allenarsi, ma si trattava più di un obbligo, non c’era quel divertimento che c’era sempre stato sino ad allora. Volevamo che iniziasse la sua carriera a Dubrovnik e lo fece, ma senza grandi risultati. Era sotto stress. Disputò il torneo di doppio con la sorella maggiore Andrea (anche lei una promettente tennista, tanto da disputare gli Australian Open juniores nel 2009 dove perse al primo turno contro Kristina Mladenovic, ndr): c’era talmente tanta emozione in campo che anche gli spettatori si misero a piangere. Vinsero il primo match, pensando tutto il tempo alla sorella che giaceva su un letto d’ospedale.”
La famiglia Konjuh poteva solo sperare. E pregare.
E le preghiere vennero esaudite. Dopo trentasette giorni, ecco il miracolo.
“Un miracolo, per la medicina. Un miracolo di Dio” le parole di Konjuh senior.
La piccola Antonia infatti si “sveglia” improvvisamente e borbotta “Mamma”. Il giorno dopo inizia a parlare, dopo una decina di giorni ad alimentarsi e infine ad alzarsi in piedi.
Dopo una lunga convalescenza, Antonia è guarita e sta bene. Da allora, al termine di ogni match vinto Ana guarda il cielo e dedica la vittoria alla sorella.

Di fronte a quanto raccontato, pare poca cosa l’incredibile recupero lampo alla caviglia infortunata e poi, grazie ad una lunga serie di forfait, la convocazione in extremis alle Olimpiadi. E riuscire a realizzare così il suo sogno di partecipare ai Giochi Olimpici. Ma è stato – nel suo piccolo – un miracolo anche questo.

A Rio, la giovane tennista dalmata si è poi spinta sino al secondo turno, dove è stata sconfitta da Carla Suarez Navarro dopo un primo set, perso 7-5 al tie-break, che potrebbe suscitare qualche rimpianto.

Ma forse Ana, per quello che ha già visto e provato in questi – soli – diciannove anni, di rimpianti non ne ha. Testarda e decisa, continua ad inseguire con perseveranza il suo sogno di diventare una campionessa. Perché sa che con l’impegno, la passione, la fiducia e la fede si può arrivare lontano. Sa che bisogna crederci.
Perché quando ci credi, ci credi veramente, può accadere di tutto.
Anche i miracoli.

Continua a leggere
Commenti

evidenza

Nei Dintorni di Djokovic: Nole, ancora tu? Ma non dovevi arrivarci più?

Novak Djokovic ha raggiunto Steffi Graf in testa alla classifica assoluta di settimane di permanenza al n. 1. Solo un anno fa, dopo quanto accaduto a Melbourne, sembrava un’impresa irrealizzabile. Ma, ancora una volta, Djokovic ha stupito tutti e riscritto una pagina della storia di questo sport

Pubblicato

il

Novak Djokovic - Australian Open 2023 (foto: twitter @AustralianOpen)

È passato un anno. Era infatti lunedì 28 febbraio 2022 quando Medvedev subentrava a Djokovic al vertice della classifica ATP, peraltro interrompendo il monopolio del trono ATP da parte dei Fab Four (Federer, Nadal, Djokovic e Murray – elencati, a scanso di equivoci, in rigoroso ordine cronologico di conquista della prima posizione mondiale) che durava ininterrottamente da ben 18 anni. Da quando cioè – il 2 febbraio 2004 – Roger Federer raggiunse per la prima volta la prima posizione del ranking, dando inizio ad un’era probabilmente irrepetibile, che ha visto per quasi vent’anni il dominio di quattro fuoriclasse assoluti. Sì, consideriamo tale anche Andy Murray, che non vanterà il palmares degli altri tre – ridenominati Big Three proprio dopo che, a partire dal 2017, per i problemi all’anca lo scozzese non è più stato in grado di competere al loro livello – ma che comunque nel periodo in cui duellava con loro ha portato a casa 3 Slam (in 10 finali), 1 ATP Finals, 2 medaglie d’oro olimpiche, 14 Masters 1000 e 41 settimane da n. 1. Ma non divaghiamo, anche se c’è sempre il rischio di farlo parlando di questi quattro fenomeni.

Stavamo dicendo che in quell’ultimo giorno di febbraio di un anno fa Medevdev diventava per la prima volta il n. 1 ATP, superando Djokovic. Il serbo era appena uscito dal “pasticciaccio brutto” dell’espulsione dall’Australia e conseguente forfait all’Australian Open e già sapeva che avrebbe dovuto rinunciare anche ai Masters 1000 di Indian Wells e e Miami, dato l’obbligo di vaccinazione anti Covid previsto per chi si recava negli Stati Uniti. Insomma, Nole si trovava sicuramente in un momento psicologicamente molto difficile. Già reduce dalle delusioni di pochi mesi prima –  la mancata medaglia d’oro olimpica, ma soprattutto il Grande Slam sfumato all’ultimo chilometro, con la finale dello US Open persa proprio contro Medvedev –  aveva appena visto svanire anche il sogno della decima vittoria a Melbourne e stava realizzando che l’annata sarebbe stata costellata da diversi stop and go agonistici in considerazione della sua scelta di non vaccinarsi e che lo strascico di critiche e polemiche annesse a quanto accaduto Down Under –  e in assoluto alla scelta in questione – lo avrebbe accompagnato per parecchio tempo. Ed erano in tanti tra gli addetti ai lavori e gli appassionati a pronosticare che con tutto quel fardello emozionale addosso, per quanto gli era accaduto e gli stava accadendo, difficilmente Nole si sarebbe ripreso del tutto e avrebbe avuto la forza di tornare quella macchina da tennis pressoché perfetta ammirata per tanti anni. E a ritenere, quindi, che il sole sul regno del re serbo fosse tramontato.

In realtà non passò nemmeno un mese che, complici le performance non eccezionali del russo ai Master 1000 di Indian Wells e Miami (anche a causa di un problema fisico che lo ha poi costretto ad operarsi e a fermarsi), il fuoriclasse di Belgrado si riprese lo scettro stando seduto sul divano di casa, vista la rinuncia obbligata al Sunshine Double. Ma i discorsi tornarono d’attualità a metà giugno, quando – usciti dal computo i punti della vittoria al Roland Garros dell’anno precedente – Nole dovette cedere nuovamente la prima posizione a Medvedev. Ci fu il “copia & incolla” di quanto detto e scritto a febbraio, rafforzato da quanto accaduto nel frattempo nel circuito e da quanto si pensava stesse per accadere. L’ascesa prepotente di Alcaraz, che sembrava destinata a proseguire anche nella seconda parte della stagione, soprattutto sul cemento americano. La doppietta Slam di Nadal e la conseguente possibilità che vedendo all’orizzonte la possibilità di realizzare il Grande Slam avrebbe trovato per l’ennesima volta modo di andare oltre gli acciacchi fisici: conoscendo l’animus pugnandi del maiorchino, per molti era quasi una certezza. L’approssimarsi della stagione del cemento americano, dove Medvedev negli ultimi anni aveva sempre reso al meglio.  A queste ed alle considerazioni di febbraio che restavano attuali – dato che per i protocolli Covid in vigore non avrebbe potuto partecipare anche i tornei nord-americani dell’estate, US Open compresi – se ne aggiungevano delle altre a sfavore di Nole: l’impatto della cocente sconfitta contro Rafa a Parigi, il fatto che avesse appena superato i 35 anni, che lui stesso avesse dichiarato apertamente come tra i suoi obiettivi non ci fosse più la prima posizione del ranking ma pressoché esclusivamente i tornei del Grande Slam. La mancata assegnazione di punti ATP al torneo di Wimbledon, il Major che in questi ultimi anni lo vede maggiormente favorito e dove non perde dal 2017, sembrava infine l’ultimo colpo di piccone alla possibilità del campione di Belgrado di restare in scia e magari tentare un nuovo sorpasso a fine stagione, grazie agli amati tornei indoor. Insomma, erano di nuovo in molti quelli convinti che la sesta ascesa al trono fosse stata l’ultima e che si fosse veramente giunti al crepuscolo del suo regno.

 
Novak Djokovic – Roland Garros 2022 (foto Roberto dell’Olivo)

Ed invece eccoci qua, ad annotare l’ennesimo record del fenomeno serbo. Da questa settimana, infatti, Novak ha raggiunto Steffi Graf per numero di settimane in testa alla classifica mondiale, 377. Eh già, perché da qualche settimana siamo al Djokovic VII. Il sole non era tramontato, c’erano solo tante nubi che lo oscuravano. E Novak le ha spazzate via, con la stessa forza con cui la Košava, il potente e freddo vento che arriva dai Carpazi, in questo stesso periodo le spazza via dai cieli della sua Belgrado.

Questo perché i pronostici di metà giugno sono tutti saltati. Medvedev tornò n. 1 ma da quel momento non ne ha azzeccata praticamente una, tanto che adesso è ai margini della top 10 (ci è rientrato lunedì, grazie alla vittoria a Rotterdam dela scorsa settimana). Anche Nadal non è più riuscito ad ingannare le leggi del tempo e dell’usura fisica: infortunatosi a Wimbledon, non è praticamente più tornato competitivo da allora e a Melbourne ha accusato l’ennesimo acciacco fisico che lo terrà di nuovo lontano dai campi per un po’. Alcaraz a dire il vero ha mantenuto le promesse, ha vinto lo US Open ed è diventato il più giovane n. 1 della storia. Ma ha dovuto pagare dazio per una stagione scintillante ma oltremodo impegnativa, con ben 70 partite disputate. Che sono risultate evidentemente troppe anche per un teenager dal fisico corazzato come lui, visto che sono arrivati gli infortuni – prima lo strappo agli addominali al Masters 1000 di Bercy, poi un problema alla coscia prima dell’Australian Open – che lo hanno tenuto fermo da inizio novembre sino alla scorsa settimana, quando è rientrato sulla terra rossa di Buenos Aires (riprendendo peraltro subito le buone abitudini: cioè vincendo il torneo). E se è vero che a Wimbledon non si assegnarono punti, d’altro canto quella vittoria, la settima ai Championships, confermò a Djokovic di essere di nuovo lui. Di aver cioè metabolizzato tutto quanto era accaduto nei mesi precedenti e di poter ancora essere il “RoboNole” che tutti conoscevano. Tanto che dopo la forzata rinuncia ai tornei sul cemento dell’estate nordamericana ha ripreso il discorso da dove lo aveva lasciato sull’erba londinese: il suo score nei tornei ufficiali, da Wimbledon alle ATP Finals è stato di 25 vittorie ed una sola sconfitta. E così anche quel pronostico era stato smentito: Djokovic era tornato.

Novak Djokovic – Torino 2022 (foto Gianpiero Sposito/Fit)

Devo essere meno umile nel 2023: il 2022 mi dice che devo puntare ai grandi tornei, vincerli”. “Voglio rimanere sano e giocare al livello più alto”. Queste le dichiarazioni di Nole a dicembre, poco dopo la sesta vittoria alle ATP Finals che gli ha consentito di raggiungere Federer in testa alla classifica dei plurivincitori del torneo, pienamente in linea con la consapevolezza appena acquisita di essere di nuovo il giocatore da battere. Detto, fatto. Ed è così che a gennaio (aggiornando nel frattempo lo score vittorie-sconfitte dal giugno scorso ad un impressionante 35-1) ha realizzato il sogno sfumato lo scorso anno: ha conquistato il suo decimo Australian Open. Ed è tornato per la settima volta in testa alla classifica. La prima fu il 4 luglio 2011, dopo il suo primo successo a Wimbledon. Raggiunta Steffi Graf, come dicevamo, ma già certo di superarla. Il prossimo lunedì, infatti, il solo Alcaraz potrebbe eguagliare il suo punteggio nel ranking, vincendo questa settimana l’ATP 500 di Rio de Janeiro, ma Nole rimarrebbe comunque il n. 1 in quanto ha conquistato complessivamente più punti tra Slam, Masters 1000 Mandatory e ATP Finals. Tra qualche settimana molto probabilmente dovrà di nuovo abdicare, anche se la prossima facesse bottino pieno a Dubai, dato che i protocolli anti Covid USA non gli consentiranno di partecipare neanche quest’anno al “Sunshine Double”. Ma attenzione: da qui al Roland Garros (compreso), Alcaraz difende oltre 3.000 punti, Nadal poco più di 2.800 punti, Ruud e Tsitsipas circa 2.300, Nole invece meno di 2.000. E poi arriverà Wimbledon, stavolta con i punti in palio. Insomma, un Djokovic VIII e quota 400 settimane non sembrano proprio traguardi impossibili.

Concludiamo l’articolo riportando alcuni dati – anche aggiornando parte di quelli riportati di recente da Ferruccio  Roberti nella sua rubrica “Numeri” – che certificano, al di là dei calcoli del computer ATP, di come il fuoriclasse serbo sia stato il n. 1 del tennis maschile di questi ultimi dodici anni. Diciamo dodici perché è vero che divenne n. 1 per la prima volta a metà 2011, ma la sua supremazia si delineò sin dall’inizio di quella stagione, dato che arrivò a Londra avendo già vinto l’Australian Open e 4 Masters 1000: dopo i Championship, il suo score stagionale fu di cinquanta vittorie ed una sola sconfitta, quella nella semifinale del Roland Garros contro Federer. A partire dal 2011 Djokovic ha vinto 21 dei 45 Slam (il 46,7%) e 33 dei 79 Masters 1000 (41,7%) a cui ha partecipato. In questo lasso temporale solo Nadal è riuscito a stargli (quasi) a ruota, grazie soprattutto al predominio sulla terra battuta: Rafa ha infatti vinto 13 Slam e 18 Masters 1000, di cui rispettivamente 9 e 13 sul mattone tritato. Molto più lontani gli altri due Fab Four, a partire da Sua Maestà Roger Federer che negli ultimi dodici anni ha vinto 4 Slam e 11 Masters 1000. Giusto evidenziare come il fenomeno di Basilea abbia scontato la differenza di età con i suoi grandi rivali: in quel 2011 Roger compì trent’anni, Djokovic 24 e Nadal 25. Per il coetaneo di Nole, Murray, 3 Slam e 8 Masters 1000, ma come già detto è stato competitivo al top per i primi cinque anni, fino al 2016. E tornando a parlare della prima posizione del ranking vera e propria, da quel 4 luglio 2011 Djokovic, come dicevamo, ha occupato la prima posizione del ranking ATP per 377 settimane, ovvero per il 64,3% del tempo (sono escluse dal calcolo le 22 settimane in cui il ranking fu congelato per la sospensione dell’attività a causa della pandemia). Gli altri lo seguono ben distanti: Nadal 107, Murray 41 e Federer 25.

Novak Djokovic - Australian Open 2023 (Twitter @rolandgarros)
Novak Djokovic – Australian Open 2023 (Twitter @rolandgarros)

Certo, la vittoria a Melbourne per quanto netta ha comunque fatto capire, visto il problema muscolare accusato alla coscia e risolto quasi miracolosamente (uno dei possibili argomenti della conferenza stampa indetta per oggi all’ora di pranzo a Belgrado, dato che aveva accennato a tale possibilità verso la fine dell’Australian Open; un altro potrebbe essere un aggiornamento sullo stato di avanzamento della sua richiesta di un permesso speciale per giocare tra due settimane negli USA), che neanche il fisico bionico di Djokovic può sfidare le leggi del tempo. E che i quasi 36 anni, le oltre 1.200 partite da professionista, i diciotto anni e mezzo nel circuito maggiore (l’esordio fu ad Umago nel 2004, perse al primo turno contro l’attuale capitano azzurro di Davis, Filippo Volandri), prima o poi presenteranno il conto anche a lui.
Anche se con tutte le volte che ci ha sorpreso in questi anni quasi quasi un piccolo dubbio viene… Viene quasi quasi da chiedersi, tra il serio e il faceto (del resto siamo a Carnevale, no?), se siamo proprio sicuri che tra tutto quello che Djokovic ha studiato, scoperto, fatto e utilizzato per prendersi cura del proprio corpo, sia dal punto di vista fisico che spirituale – la camera iperbarica, la dieta, lo yoga, la meditazione -, non ci sia anche lo specchio di Dorian Gray? E che magari lui abbia trovato il modo per renderlo infrangibile. Per continuare a riflettere quel sole che, probabilmente, vorrebbe non tramontasse mai.

Continua a leggere

Australian Open

Nei dintorni di Djokovic AO Edition: a Melbourne è l’ora del D10KO?

Per gli addetti ai lavori è Djokovic il grande favorito dello Slam di apertura della stagione 2023. Vediamo cosa fa pensare che assisteremo alla sua decima cavalcata trionfale a Melbourne e cosa invece può far dubitare che l’aggancio a Nadal a quota 22 Slam sia dietro l’angolo

Pubblicato

il

Novak Djokovic, Australian Open 2021 (via Twitter, @AustralianOpen)

Sono passati meno di due mesi dalle ATP Finals e ancor meno dalle fasi finali della Coppa Davis ed il tennis professionistico torna a fare sul serio: lunedì a Melbourne inizia il primo Slam stagionale, l’edizione n. 111 dell’Australian Open. E come si immaginava quando c’è stata la conferma della revoca del divieto di ingresso in Australia per tre anni comminatogli dopo quanto accaduto lo scorso anno, il grande favorito è Novak Djokovic. Il fuoriclasse serbo è a caccia del suo decimo Slam Down Under, che significherebbe agganciare Nadal a quota 22 nella classifica totali dei Major vinti e, tanto per non farsi mancare nulla, anche la riconquista – ne entrerebbe in possesso per la settima volta – di quello scettro di n. 1 mondiale che ha tenuto per più tempo di tutti (373 settimane). Ma quali sono i motivi principali che portano a ritenere il 35enne campione di Belgrado in grado di portare a termine l’ennesima impresa da record – il secondo tennista in campo maschile a raggiungere la doppia cifra nelle vittorie di un singolo Slam dopo Nadal al Roland Garros – e quali invece i segnali che portano invece a ipotizzare che ci sia la possibilità che i pronostici vengano sovvertiti? Abbiamo cercato di riassumerli qui di seguito.  

I punti a favore

Sia parlando di dati statistici che di risultati recenti, i numeri sono dalla parte di Nole. Che si presenta ai nastri di partenza con una imbattibilità sui campi di Melbourne Park che dura dal 2019 (striscia di 27 vittorie consecutive: ultima sconfitta nel 2018, contro Chung negli ottavi), con tre vittorie nelle tre ultime partecipazioni, ed un parziale negli ultimi sette mesi di 30 vittorie ed una sola sconfitta (la finale del Masters 1000 di Bercy contro Rune) in match ufficiali. Ne dovrebbe derivare un serbatoio dell’autostima bello pieno, e sappiamo quanto conti per il belgradese poter approcciare un grande evento con la miglior attitudine mentale. Considerazione, quest’ultima, rafforzata dalle prestazioni della scorsa settimana ad Adelaide, che hanno evidenziato come anche tecnicamente e fisicamente la condizione del tennista serbo sia ottimale. Aggiungiamo il fatto che il lotto dei suoi principali competitors non è che invece se la passi benissimo: se ci focalizziamo sui più recenti campioni Slam, Alcaraz è fuori dai giochi, Nadal non ha brillato alla United Cup e le recenti dichiarazioni ottimistiche non possono dissipare i dubbi sul suo stato di forma, Medvedev in queste non ha dato segnali di essere tornato quello del biennio 2020-2021 e non la copia un po’ sbiadita vista all’opera lo scorso anno.

Anche il sorteggio pare sia stato benevolo con Nole. Non si vedono infatti grossi ostacoli sino ai quarti di finale, anche se la sfida a Carreño Busta a livello di ottavi evoca spiacevoli ricordi newyorchesi. Nei quarti invece qualche problemino – e ci mancherebbe altro, potrebbe dire qualcuno, dato che è uno Slam e siamo a livello di top ten – potrebbe arrivare. A rigor di classifica a procuraglieli dovrebbe essere il n. 6 del mondo Rublev, ma forse potrebbe averne qualcuno in più se dall’altra parte della rete trovasse quel Rune che è l’unico che può dire di averlo battuto da giugno a questa parte in un torneo ufficiale. E probabilmente sarebbero anche maggiori se invece ci fosse quel Kyrgios che il primo set della finale di Wimbledon glielo aveva portato via e che di fronte ai suoi connazionali trova sempre energie e soprattutto motivazioni extra. Ma un Nole che arriva alla seconda settimana senza aver speso troppe energie sotto il sole dell’estate australiana, e i suoi potenziali primi tre turni rendono l’ipotesi parecchio plausibile, dovrebbe essere nelle condizioni psicofisiche ottimali per tenere a bada tutti i nomi fatti, compreso il suo nuovo amico di Canberra. Anche i possibili incroci in semifinale non paiono ostacoli insormontabili: per quanto entrambi siano in evidente crescita, affrontare uno tra Ruud (anche se noi speriamo che da quello spicchio di tabellone salti fuori Berrettini) e Fritz – anche qui qualche doloroso ricordo, anche se tutto è bene quel che finisce bene – per arrivare alla trentatreesima finale Slam non è la peggiore delle combinazioni possibili.

 

In finale dovrebbe trovare uno tra – in ordine di ranking – Nadal, Tsitsipas (qui per Sinner vale ovviamente la stessa speranza espressa prima per Berrettini) o Medvedev. Con il maiorchino, al netto delle considerazioni precedenti sul suo stato di forma, al di fuori della terra battuta non perde da quasi 10 anni (finale US Open 2013) e nell’ultima sfida a Melbourne, la finale 2019, dominò. Con il greco non perde dal 2019 ed ha vinto gli ultimi sette head to head, comprese le due sfide Slam finite al quinto a Parigi. Con il russo c’è sicuramente la ferita della sconfitta subita nella finale dello US Open 2021 che ha fatto svanire il sogno del Grande Slam proprio sul traguardo, ma all’inizio di quell’anno un Nole non a corto di energie come a New York aveva vinto in tre set la finale australiana e abbiamo già detto che Daniil non sembra ancora uscito dal tunnel 2022, stagione che lo ha visto perdere tre sfide su tre contro Nole. Insomma, a questo punto, per mettere un po’ di pepe forse vale la pena inserire anche il nome di Auger-Aliassime tra quelli dei possibili finalisti, dato che prima o dopo ci arriverà e considerato il fatto che tra tutti i giocatori citati è l’unico insieme a Rune che è in parità negli scontri diretti con il fenomeno serbo, anche se solo grazie al fatto che la vittoria nella Laver Cup su un Djokovic acciaccato è calcolata nelle statistiche. Ma con FAA o senza, la sensazione è che la sostanza non cambi: chiunque si troverà di fronte in finale, il campione serbo partirà favorito.

I punti di attenzione

Insomma, tutto sta filando liscio e non ci sono dubbi che Nole metta nella bacheca del suo Novak Tennis Center di Belgrado l’ennesima riproduzione della coppa del vincitore dell’Australian Open? Keep calm, per dirla come gli australiani (a meno che nel loro tipico slang non abbiano un modo diverso per dirlo, ma non risultava). Al netto dell’ovvia considerazione che nello sport non è mai finita finché non è finita e che di clamorose eliminazioni dei grandi favoriti sono pieni gli annali, non è che proprio tutto stia filando liscio come l’olio in casa serba. Ci sono infatti dei segnali che possono dare un po’ di coraggio ai suoi avversari e che probabilmente si possono ricondurre tutti ad un’unica considerazione: nonostante in campo cerchi di non darlo a vedere (e gli riesce benissimo), Nole veleggia verso le 36 primavere. E per quanto appunto non abbia niente dell’agonista over 35, si può notare come qualche acciacco ogni tanto inizi a saltar fuori anche per lui. È successo sia la scorsa settimana durante il torneo di Adelaide, sia in questi giorni di allenamento a Melbourne. Niente di preoccupante, a suo dire. Ma come sappiamo che quando sente girare tutti gli ingranaggi alla perfezione Djokovic è in grado di trasformarsi in RoboNole e diventare pressoché imbattibile, dall’altra parte abbiamo anche visto che quando invece percepisce che qualcosa non va nel verso giusto la cosa può impattare sul suo approccio in campo e far intravedere qualche crepa nel suo gioco, in cui gli avversari più accorti possono infilarsi (ed è logico pensare a Nadal, anche solo ricordando la rimonta da 2-5 nel quarto set dei quarti dell’ultimo Roland Garros). Il nervosismo dimostrato nella finale di Adelaide ne è l’esempio più recente.

E non si può inoltre non osservare il fatto che comunque, anche se alla fine la vittoria la porta poi a casa praticamente sempre lui, Nole nell’arco di un match non appare più così dominante come in passato. Giocoforza, infatti, dopo vent’anni dalla prima partita da professionista – era il 6 gennaio 2003, perse al primo turno di un ITF in Germania – e oltre 1200 partite a livello ATP, l’intensità in campo non può più essere sempre quella di una volta: i momenti di pausa durante i match sono un pochino più frequenti, le chance non vengono sfruttate con la chirurgica lucidità di qualche anno fa. E anche se, soprattutto al meglio dei cinque set, la classe, l’esperienza e la forza mentale gli permettono di alzare il livello e fare ancora la differenza nei momenti decisivi di un match, far rimanere in partita avversari che spesso hanno dieci e più anni di meno e soprattutto non hanno telaio e motore usurati da centinaia di partite in più, può diventare estremamente pericoloso se la partita si allunga e il fisico diventa il fattore più rilevante, specie sotto il cocente sole australiano.

Conclusioni

Diciamo che se il fisico non lo tradisce, tutto fa pensare che sia l’ora del D10KO, se ci consentite di sintetizzare così, a mo’ di hashtag, l’obiettivo del fuoriclasse belgradese: la conquista della decima vittoria a Melbourne. L’unico appiglio per gli avversari è appunto il fatto che il tempo, citando Jovanotti, “comunque vadano le cose lui passa” e quindi ad un trentacinquenne può presentare il conto quando meno se lo aspetta. A proposito, com’è la statistica dei vincitori Slam over 35? Ah, già: Federer e Rosewall a quota tre vittorie, Nadal a due e Djokovic a una. Lo ammettiamo, non l’avevamo considerata nel fare le nostre riflessioni. Ma, tutto sommato, che rilevanza volete che abbia? Nole mica è il tipo che si pone sempre nuove sfide e trae energia dai nuovi obiettivi, come diventare non solo il giocatore con più vittorie Slam in assoluto ma anche da over 35, no?

Continua a leggere

Flash

Nei Dintorni di Djokovic: Bedene, un addio senza rimpianti. Ma con un sogno

Si ritira Aljaz Bedene, miglior tennista sloveno di sempre. Senza rimpianti, ma con un piccolo rammarico (“Il Covid è arrivato quando potevo fare un ulteriore salto di livello”). Nel suo futuro, ancora spazio per il tennis: “Vorrei aiutare i giovani sloveni. Io ho fatto da solo, non vorrei fosse così anche per loro”

Pubblicato

il

Aljaz Bedene (fonte: Instagram)

Al termine del match perso contro Musetti al primo turno del Croatia Open di qualche settimana fa, lo speaker ha chiesto al pubblico di salutare con particolare affetto Aljaz Bedene, dato che quello era stato il suo ultimo match ad Umago: a settembre, infatti, il tennista sloveno si ritirerà dal tennis agonistico. Undici partecipazioni ad Umago (solo il cinque volte campione del torneo, Carlos Moya ha fatto meglio), di cui nove nel tabellone principale: dal 2011 ad oggi il tennista di Lubiana è stato presente a tutte le edizioni del Croatia Open. Miglior risultato i quarti di finale raggiunti nel 2013 e nel 2019: sconfitto in entrambe le occasioni dal futuro vincitore del torneo, rispettivamente Tommy Robredo e Dusan Lajovic. “Non ho mai voluto rinunciare ad Umago. Neanche lo scorso anno dopo che avevo appena avuto il Covid. È il mio torneo di casa, è quello più vicino a casa. Per me qui è diverso rispetto a qualsiasi altro torneo. E oggi c’era un’atmosfera particolare” ha commentato Bedene, che la prossima settimana giocherà lo US Open e poi chiuderà davanti al suo pubblico, in Slovenia, nel playoff del World Group II di Coppa Davis contro l’Estonia.

Che Bedene fosse ai titoli di coda lo aveva “spoilerato” ufficialmente in maggio Novak Djokovic (in Slovenia la notizia, in realtà, girava da un po’) nella conferenza stampa prima del loro match di terzo turno del Roland Garros. E proprio dopo quel match, insieme ad un collega sloveno avevamo chiesto di intervistarlo per saperne di più sulla sua decisione e per ripercorrere insieme a lui la sua carriera. Ma la prima domanda, la più ovvia, ci veniva rubata da una giornalista serba. Che si materializzava all’improvviso nel salottino e sfruttando il classico momento di attesa prima dell’inizio – quando il giocatore si sta ancora sedendo, per capirci – coglieva l’attimo per chiedere al tennista di Lubiana se ci fossero margini per un ripensamento. “No, credo proprio di no. Sto già pensando ad altre cose” la risposta decisa di Bedene, che alla successiva domanda su cosa intendesse fare una volta appesa la racchetta al fatidico chiodo aggiungeva un vago “Ho alcuni progetti”.

Sparita la collega (che, ad onor del vero, aveva poi chiesto scusa per il blitz) abbiamo potuto iniziare a riavvolgere con il 33enne tennista sloveno il nastro della sua carriera. Quando lo si fa, nel guardare indietro un giocatore magari scopre di avere qualche rimpianto. Per Bedene, ad esempio, poteva essere il non aver vinto nessun titolo del circuito maggiore, pur arrivando per quattro volte in finale (ben diverso lo score a livello Challenger, dove ha vinto 16 delle 18 finali disputate: l’ultima proprio nel torneo di Casa, l’Open di Slovenia a Portorose, nel 2019). Ma per Aljaz non è così.  “Sinceramente, non ho rimpianti. Forse l’unica cosa che mi dispiace è che nel momento in cui volevo e sentivo che potevo fare quel passo per salire di livello, è arrivato il Covid. In quel momento stavo giocando veramente bene: non dico da top 20, ma sicuramente da top 30.” Andando a vedere i risultati in quell’inizio di 2020 prima che la pandemia stravolgesse la vita di tutti, effettivamente Bedene si stava veramente esprimendo bene sul campo da gioco: in quel mese e mezzo era arrivato due volte nei quarti, tornando dopo quasi due anni nella top 50. E arrivava da un ottimo finale di stagione 2019, con una finale e due quarti. “Però, come dire, non ho rimpianti perché ho sempre dato il massimo di quello che potevo e anche questo è un qualcosa che non è dipeso da me. Dopo, tra la pandemia prima e l’infortunio poi, ho perso molta motivazione.”

 

Continuando a riavvolgere il nastro, su una nostra specifica domanda sulla questione, ecco che però un piccolo, piccolissimo rimpianto salta fuori. Bedene, infatti, condivide il primato della miglior classifica ATP di un tennista sloveno in campo maschile con Grega Zemlja, entrambi saliti sino alla posizione n. 43. E ritenendosi, per i risultati raggiunti, il miglior tennista sloveno di sempre, c’è un piccolo rammarico per il fatto che il best ranking non ne sia una ulteriore prova. “Ecco, forse quella posizione n. 43 in coabitazione. Però ho giocato così tanto nel circuito ATP, nei tornei del Grande Slam, che credo di poter dire di essere comunque, di gran lunga, il miglior giocatore sloveno.”

In effetti i numeri danno ragione al 33enne nativo di Lubiana. Per Bedene lo US Open d’addio sarà il trentacinquesimo torneo del Grande Slam. Miglior risultato – sinora – il terzo turno, raggiunto in ben sei occasioni: tre volte a Parigi, l’ultima proprio nel 2022, due a Wimbledon e una allo US Open. Piccola curiosità (dato il nome della rubrica, è doveroso riportarla): a stopparlo al suo primo e al suo ultimo terzo turno Slam, entrambi giocati a Parigi, è stato sempre Novak Djokovic e sempre lasciandogli otto giochi (distribuiti praticamente in modo quasi identico: 62 63 63 nel 2016, 63 63 62 lo scorso maggio). Tornando ai numeri di Bedene, tra Slam, circuito ATP e Davis, arriva a sfiorare quota 300 match giocati (quella con Musetti ad Umago è stata la partita n. 296). Nel confronto con l’altro n. 43 ATP della storia del tennis sloveno, Zemlja, non c’è storia: il 35enne di Jesenice non arriva a cento match ai massimi livelli, ha disputato solo una finale ATP e ha giocato in tutto 11 Major (miglior risultato gli ottavi anche per lui, però in due sole occasioni: una a Wimbledon e una a New York). Per dirla tutta, ci sarebbe da aggiungere che Zemlja è nettamente in vantaggio negli scontri diretti: 6-1. In realtà, però, dato che parlavamo di circuito ATP e Slam va specificato che nessuno di questi si è giocato a quel livello. Se non l’ultimo, proprio quello vinto da Bedene, nel primo turno delle qualificazioni – e quindi l’ATP non lo conta nelle statistiche del circuito – dell’ATP 250 di Zagabria del 2015. Gli altri sono tutti match a livello Challenger e Future, dove i quasi tre anni di età e i quattro di professionismo in più di Zemlja hanno avuto indubbiamente il loro peso contro il più giovane e meno esperto connazionale.

Tornando al rewind della sua carriera ed alle quattro finali ATP perse, è stato logico anche chiedergli in quale occasione si è sentito di essere andato vicino ad alzare la coppa del vincitore. “A Metz nel 2019, contro Tsonga. Ero sopra 7-6 4-3 e palla break. Ma ripenso anche quella contro Pouille. Stavo giocando veramente bene (ATP 250 di Budapest, nel 2017: da qualificato, arrivò in finale senza perdere un set, ndr), e al mattino prima della finale mi si aprì una vescica sulla mano. Giocai la finale, ma senza poter essere competitivo, veramente un peccato.”

Confidando nel fatto che immerso nei ricordi del passato potesse essere un pochino più facile che ci rivelasse qualcosa del suo futuro, abbiamo provato ad avere più fortuna della collega serba, ributtando lì la domanda su cosa pensa di fare da ottobre prossimo in poi. Bedene è rimasto ermetico su quella che probabilmente è la sua “business idea” principale (“Un grande progetto di cui non posso parlare perché è ancora in fase di definizione“, che i rumors in Slovenia dicono sia la creazione, insieme al fratello, di un’agenzia di management per sportivi), ma qualcosa – e anche di interessante – del suo futuro alla fine ce lo ha detto. “Posso dire che vorrei comunque rimanere anche nel tennis, vorrei aiutare i giovani tennisti sloveni. In Slovenia non abbia strutture adeguate che possono aiutare a crescere quelli con maggiori prospettive. Quindi mi sto concentrando anche su quello.

Ecco allora un nuovo tuffo nei ricordi, stavolta più lontani nel tempo: quelli degli inizi, dei primi passi per diventare un tennista. E dalle parole di Bedene traspare un po’ di rammarico. “Se ripenso a com’ero io da ragazzo… Se sedici anni fa avessi saputo quello che so oggi o se avessi avuto vicino qualcuno che aveva le competenze necessarie, avrei fatto le cose diversamente. Di fatto noi eravamo soli, i genitori hanno fatto ciò che potevano e sapevano, sono stati fantastici… Ma partivamo tutti da zero. Proprio per questo vorrei aiutare i giovani sloveni. Se ci sono giovani come me ai tempi, con del talento, vorrei aiutarli. In questo momento abbiamo Bor Arntak, che è tra i primi dieci al mondo a livello juniores, ma dove può allenarsi? Chi può avere come sparring partner per crescere ulteriormente? Sì, ci siamo noi “vecchi” (lui ed il 31enne Blaz Rola, altro giocatore sloveno ancora in attività, che è stato top 100, ndr), ma, onestamente, siamo in ritardo di una decina di anni rispetto ai paesi più avanzati dal punto di vista tennistico. In primis in termini di strutture, ma anche di competenze e conoscenze. Certo, dovrebbe essere qualcun altro a farlo, ma proverò a farlo io”.

Queste parole di Bedene ci fanno fare un salto in avanti, ad un altro momento molto significativo della sua carriera. Con il pensiero però, senza andare a tirar fuori nuovamente la storia direttamente con Aljaz, dopo tutto questo tempo. Un salto al 2015, quando chiese di poter difendere i colori della Gran Bretagna in Coppa Davis dopo aver ottenuto la cittadinanza britannica. A quei tempi disse in più occasioni che si trattava anche un gesto di gratitudine verso una nazione (e la sua federazione) che gli aveva permesso di realizzare il suo sogno di diventare un giocatore professionista: Bedene si era infatti trasferito in Inghilterra nel 2008, a 19 anni. Implicitamente, con le sue parole, ha ricordato quanto sia stata fondamentale per il suo futuro agonistico la scelta di lasciare la Slovenia. Anche quella del 2015 avrebbe potuto rivelarsi fondamentale per la sua carriera, dato che se la sua richiesta fosse stata accolta (ricordiamo che fu respinta perché Bedene aveva già giocato per la Slovenia in Davis e una regola inserita proprio all’inizio di quell’anno vieta ad un tennista di giocare per due nazionali di Davis diverse) sarebbe stato schierato come secondo singolarista. E proprio alla fine di quel 2015 Andy Murray – con cui in quegli anni si allenava – trascinò la Gran Bretagna alla conquista dell’insalatiera.

Ne è passata di acqua sotto i ponti, da allora. Vistosi respinta definitivamente la richiesta nel 2017, dall’anno successivo Bedene tornò a difendere i colori sloveni in Coppa Davis, anche per tentare di coronare il sogno di partecipare alle Olimpiadi di Tokyo. Sogno purtroppo sfumato, tra Covid, rinvio dei Giochi e infortunio. Ma Aljaz non ha dimenticato il suo percorso. E da quella gratitudine che non è riuscito a dimostrare a chi lo accolse ragazzino di belle speranze e lo fece diventare un tennista di alto livello. è passato a voler provare ad essere lui a dare, in Slovenia, quell’aiuto che non ha mai potuto avere.  L’ex top 50 infatti prosegue nel suo discorso. “Quello che manca è un sistema. Quando ho visto cosa hanno iniziato a fare gli italiani qualche anno fa ho pensato “Wow, fantastico” e guarda adesso dove sono i giocatori italiani. Certo, avevano più risorse ed hanno potuto investire di più, ma comunque quello che è stato fatto è creare un sistema. Noi in Slovenia non abbiamo un sistema, bisogna crearlo e da qualche parte bisogna pur iniziare. Lo ripeto servono strutture e bravi professionisti, poi arriveranno i giocatori.”

Chissà, forse tra qualche anno quel piccolissimo rimpianto per Aljaz Bedene non avrà più ragione di esistere, perché grazie al suo impegno arriverà un altro giocatore sloveno che farà meglio di quella posizione n. 43.  E ci sarà riuscito senza dover andare in un altro paese. Allora buona fortuna, Aljaz. Anzi, glielo diciamo in sloveno: srečno, Aljaž!

Continua a leggere
Advertisement
Advertisement

⚠️ Warning, la newsletter di Ubitennis

Iscriviti a WARNING ⚠️

La nostra newsletter, divertente, arriva ogni venerdì ed è scritta con tanta competenza ed ironia. Privacy Policy.

 

Advertisement
Advertisement
Advertisement
Advertisement