L'ennesima sfida al tempo di Roger Federer: giocare uno Slam a 40 anni

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L’ennesima sfida al tempo di Roger Federer: giocare uno Slam a 40 anni

Eccellere nella stagione degli ‘anta’ è un’impresa riuscita a pochissimi eletti. Federer può riuscirci? Non possiamo escluderlo. Anche se la doppia artroscopia non è un buon segnale

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Roger Federer - Australian Open 2020 (via Twitter, @AustralianOpen)
 

ahi ahi ahi… a ‘sto giro la vedo più grigia del solito“, recita il commento di un utente in calce all’articolo sulla notizia della seconda operazione del 2020 al ginocchio destro per Roger Federer che chiude qui la sua stagione. Se ci pensate, è questo il miglior editoriale che si può scrivere sulla faccenda: la sensazione è che ogni volta sia un po’ peggio, un po’ più difficile, perché si tratta di venire fuori da una nuova buca scavata dal tempo – non l’interlocutore più incline al dialogo.

Beninteso, stiamo parlando di un signore che al tempo sa tenere testa.
Meno di un anno fa andava in scena quella roba dell’8-7 40-15, dovreste ricordarla (ma lo sceneggiatore si rivelò serbo). Tre anni fa, dopo svariati mesi lontano dal circuito, ha vinto uno Slam indossando a metà torneo il costume di Superman sopra la casacca della 17° testa di serie – dimostrando di volare più alto delle superstizioni, oltre che degli avversari – e quindi non possiamo arrogarci il diritto di ritenere poco credibile il suo proposito di tornare in campo nell’anno delle quaranta primavere.

Dobbiamo però analizzare i fatti. La seconda operazione di artroscopia al ginocchio destro in meno di quattro mesi non è il migliore dei segnali. Sebbene non si tratti di una procedura particolarmente invasiva, che offre al contempo il vantaggio diagnostico di ‘ispezionare’ l’articolazione durante l’intervento per avere un quadro clinico più chiaro, non è usuale che un paziente vi si sottoponga due volte in così poco tempo. La doppia operazione suggerisce che la prima non sia stata sufficiente a risolvere il problema, qualsiasi esso sia; l’artroscopia è infatti il nome di una procedura che accomuna la risoluzione di diverse condizioni cliniche, dalle lesioni a carico di menisco, legamenti, rotula e cartilagine alla presenza di frammenti mobili (come nel caso delle caviglie di Fognini). Non sappiamo di quale problema soffra lo svizzero, dunque è difficile fare delle ipotesi.

Sappiamo però che la sua intenzione è tornare in campo nel 2021, stagione nel corso della quale compirà 40 anni. E di quarantenni nel circuito maggiore non è che se ne siano visti molti, quantomeno in Era Open. Tanti si sono fermati nell’anno dei 39: pensiamo a Stepanek, Haas, El Aynaoui, Dick Norman.

C’è un esempio ancora in attività, quel diavolaccio di Ivo Karlovic, nato nel febbraio 1979: il fatto che lo scorso anno abbia disputato quattro Slam su quattro gli ha consentito di superare persino Jimmy Connors, che nel 1992 – nell’anno dei quaranta, che avrebbe compiuto però solo a settembre – fu presente a Parigi, Londra e New York mancando solo l’appuntamento australiano (ma a Melbourne ci è andato solo due volte in tutta la carriera).

Oltre a Karlovic e Connors, altri due tennisti sono riusciti a comparire in top 100 dopo aver compiuto 40 anni. Il meno noto è il danese Torben Ulrich, uno strano matusalemme del tennis – mai vincitore di un torneo – la cui prima apparizione certificata in uno Slam risale al 1948; nel 1975, sulla soglia dei 47 anni, Ulrich andava ancora in giro a perdere partite tra circuito Grand Prix e WCT, dopo essere stato numero 98 del mondo a quasi 46 anni e aver vinto l’ultima partita ufficiale contro Pancho Segura a Lacosta (USA) nel 1974. Il più noto è Ken Rosewall, che a 44 anni ha giocato il suo ultimo Slam (terzo turno all’Australian Open), a 42 anni veniva battuto da Tanner in semifinale (sempre a Melbourne) e soprattutto, pochi mesi prima di compiere 40 anni, raggiungeva la finale a Wimbledon e US Open – ricavandone una doppia, severa, lezione da Connors.

Quanto a Wimbledon, il record all time del partecipante più anziano in singolare maschile poggia ancora sulle (decedute) spalle di Major Josiah George Ritchie, che giocò il torneo nel 1926 a quasi 56 anni: nella sua stringata pagina Wikipedia si legge ‘Major was his first name, not a military title‘. Un aneddoto tanto fuori dal tempo da meritare una citazione. A noi però interessa più che altro quanto è accaduto nelle ultime cinque decadi, in Era Open, perché è in questo libro delle statistiche che Federer troverebbe posto (parecchio in alto) giocando l’edizione 2021 a un passo dai quarant’anni, a 39 anni e undici mesi circa. Non in cima, poiché pur superando Connors non pareggerebbe il quarantenne Rosewall del 1975, il quarantenne Karlovic del 2019 e il quarantaquattrenne Pancho Gonzales del 1972, che addirittura disputò da testa di serie, a 41 anni, l’edizione del 1969 (quella del famoso match con Pasarell, forse decisivo per l’invenzione del tie-break). Ah, se Feliciano Lopez – nato un mese e mezzo dopo Federer – dovesse confermare i propositi delle ultime settimane, nel 2021 dovrebbe esserci anche lui. Senza dimenticare Paolo Lorenzi, altro classe 1981, che sembra ben determinato a rientrare in top 100 prima di lasciare il tennis.

Probabilmente ci sfugge qualche altro nome, ma non dovrebbero essercene troppi altri. Per certo non sono molti i singolaristi che nel circuito maggiore hanno tenuto in mano una racchetta nell’anno dei quaranta. Sono ancor meno, praticamente nessuno a parte Rosewall, quelli che lo hanno fatto lottando ancora per i titoli importanti. Ken potrebbe presto ritrovarsi a dividere il monolocale della longevità ultraquarantennale (in cui vive beato da ormai da mezzo secolo) con il signor Federer, qualora il suo ritorno in campo nel 2021 si concretizzasse davvero. Un’eventualità alla quale dobbiamo necessariamente credere, perché è così che ci ha abituato.

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