dal nostro inviato a New York
Raggiungiamo Vincenzo Santopadre all’aeroporto JFK di New York mentre sta per imbarcarsi sul volo di ritorno per Roma, dopo una notte molto lunga e una giornata di preparativi per il rientro. La sera prima Matteo Berrettini ha giocato il suo quarto di finale a Flushing Meadows contro Novak Djokovic e ne è uscito sconfitto, come era già successo a Parigi e a Wimbledon.
Come pensi che abbia giocato Matteo nel complesso? Secondo te poteva giocare meglio?
Secondo me ha fatto tanto. Sicuramente si può sempre fare meglio, noi vogliamo sempre fare meglio, però forse quel meglio ieri non sarebbe bastato. Credo comunque che abbia giocato al meglio di come poteva giocare nella giornata, certamente la migliore partita del torneo, e naturalmente ha giocato meglio anche di quanto ha fatto a Cincinnati, dove sappiamo che era andato ritornando dall’infortunio.
Penso abbia giocato il miglior tennis che era in grado di esprimere ieri, che è un ottimo tennis, ed è molto vicino alla sua massima potenzialità odierna. Lui si sentiva bene, colpiva bene con il diritto, tenendo anche presente che dall’altra parte della rete c’era uno che ti toglie tutte le sicurezze. E tenendo presente anche la superficie, perché se dovessi scegliere dove giocare questa partita sceglierei la terra.
Infatti la partita di Parigi forse poteva andare diversamente se non avessero fatto uscire il pubblico.
Sì, anche Matteo sente che la partita che sarebbe potuta andare diversamente di quelle giocate con Djokovic era quella di Parigi, più di Wimbledon, anche se lì, così come qui, aveva vinto il primo set. Però quella del Roland Garros è quella che lui sente essere andato più vicino a portarla a casa. Poi tanto dipende anche dalle esperienze che deve fare, Matteo è “l’ultimo arrivato”: oggi leggevo che Djokovic ha giocato 12 quarti di finale qui, e non ne ha perso nemmeno uno.
Probabilmente perché i giocatori molto forti quando arrivano ai quarti di finale vuol dire che sono in forma quindi perdono raramente. O perdono prima, oppure una volta arrivati qui tendono a giocare al loro livello. Ma tornando alla partita: Matteo ha detto di essere stato molto contento di aver disputato questo match perché ha ottenuto molte informazioni. Ma queste informazioni che cosa dicono sulle zone del gioco su cui bisogna ancora lavorare per migliorare ulteriormente?
Quello che è importante è continuare a fare questo tipo di esperienze, che aiutano più di ogni altra cosa a crescere. Confrontarsi con i migliori, sia in allenamento sia in gara, e capire le difficoltà che emergono. Per esempio nella partita con Djokovic è stato abbastanza evidente che l’altro non veniva scalfito da niente e nessuno e avrebbe potuto mantenere quell’intensità di gioco per 5, 6, 7 giorni consecutivi, non lo so, mentre per Matteo si percepiva che lo sforzo del primo set, a livello psicofisico e di attenzione, era stato per lui uno sforzo grosso. Io credo che ci voglia tanto equilibrio: bisogna ambire ad essere migliori, ma anche riconoscere che il suo avversario quel giorno era un marziano.
Con questo quarto di finale, a meno di cataclismi, la qualificazione di Matteo per le Nitto ATP Finals di Torino dovrebbe essere pressoché garantita. Era un obiettivo che ci si prefissava a inizio anno, e se sì, quanto importante era questo obiettivo?
La prima volta è stato un sogno, soprattutto per come si è concretizzato, perché lui a metà stagione era ancora piuttosto indietro. Un po’ come quando arriva un figlio, che due anni prima che nasca non è nemmeno nei progetti e poi quando arriva è meraviglioso. Poi, da quando è successo la prima volta, diventa un obiettivo possibile, anche se molto difficile da raggiungere, perché bisogna essere continui con dei picchi alti. Credo che lui stia facendo qualcosa di grandioso: se lui riesce a qualificarsi per le Finals per la seconda volta in tre anni, e la terza volta è andato come riserva, vuol dire che nonostante lui sia il più “fresco”, l’ultimo arrivato, stia dimostrando di avere una solidità straordinaria.
Matteo tornerà in Italia dopo lo US Open?
No, Matteo rimane qui negli Stati Uniti perché deve giocare la Laver Cup [a Boston]. Poi da lì andrà a Indian Wells, dove lo raggiungerò io dopo essere tornato a Roma per un po’.
Questa trasferta negli Stati Uniti, quindi, iniziata a Cincinnati e che andrà fino a Indian Wells, sarà piuttosto lunga. E anche dopo il ritorno dalla California il calendario è piuttosto pieno fino alla fine della stagione con le Finals e la Coppa Davis finirà il 5 dicembre. Matteo è un giocatore che fatica a giocare tanto, anche perché può rischiare di infortunarsi. È stata prevista una pausa in questo periodo per far riposare il suo corpo?
Sulla carta è tutta una tirata fino a dicembre, ma tante volte abbiamo dovuto cambiare i programmi in corsa. Dobbiamo rimanere vigili e vedere quello che succede. Nella nostra programmazione c’è Indian Wells, Vienna e Parigi [Bercy], più ovviamente le Finals e la Coppa Davis; poi se dovesse succedere qualcosa di diverso e dovesse essere necessario saltare un torneo, lo saltiamo. Ci piace pensare che adesso Matteo ha raggiunto uno status per cui debba prepararsi bene per i tornei cui partecipa, non può andare a giocare solo per giocare. Ogni partecipazione deve essere utile, come per esempio è stato fatto per Cincinnati: ovviamente non era al massimo della condizione tennistica, ma stava bene fisicamente, c’era bisogno di giocare partite, per cui aveva senso andare a quel torneo. Tutti gli eventi da giocare devono essere funzionali alla sua crescita.