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Sergio Palmieri su Novak Djokovic: “Non è un esempio per i giovani”
Il direttore degli Internazionali a ruota libera: “Nole si batte per le cose in cui crede, ma non ha mai avvicinato la popolarità e la credibilità di Nadal e Federer”

La disavventura australiana di Novak Djokovic si sarà anche conclusa, ma non per questo si riesce a evitare di parlarne. Anzi, la questione si alimenta adesso di ipotesi, consigli, previsioni e interpretazioni riguardo al numero 1 del mondo, specificatamente sul suo calendario, alla luce delle restrizioni relative all’ingresso nei Paesi che ospitano tappe del Tour. Ospite di Radio Anch’io Sport, il direttore degli Internazionali BNL d’Italia Sergio Palmieri ha espresso opinioni da addetto ai lavori sia sugli undici giorni che hanno catalizzato sugli eventi di Melbourne l’attenzione anche di chi non si era mai interessato al tennis, sia su Nole come uomo e personaggio pubblico.
Dal momento che, tra gli attori della vicenda, Craig Tiley spicca come uno di coloro che non possono lanciare la prima pietra, non si può non domandare a Palmieri cosa avrebbe fatto al suo posto. “Non mi sarei comportato come il direttore dell’Australian Open se non altro nella fase pre-torneo, dove mi sembra che in qualche modo la direzione del torneo abbia favorito l’ingresso di Djokovic in Australia”, dice, ammettendo però che si tratta di una questione interna e rimarcando la mancata intesa tra gli organi coinvolti che quindi “non poteva risolversi in modo positivo”.
Palmieri racconta del rapporto di lunga data con Djokovic, spiegando che “è una persona assolutamente diversa da quella che può sembrare, con un carattere molto forte” e in un ipotetico incontro, anche in prospettiva di una sua partecipazione al Masters 1000 di Roma, gli direbbe di “essere se stesso come lo è sempre stato, cercando di guardare un po’ avanti e non all’immediato. Credo che il suo futuro e quello del tennis siano due cose importanti che lui ha probabilmente sottovalutato”.
Ricordando che Nole ha saputo uscire dalla crisi personale di qualche anno fa, Palmieri è convinto che supererà anche questo momento negativo, mentre l’eventuale perdita della vetta del ranking, che detiene ininterrottamente da quasi due anni, avrebbe un impatto limitato: “Un conto è perderla giocando e quindi venendo sopravanzati, ma perderla perché non si gioca lascia il tempo che trova”. Tuttavia, riconosce che “questa vicenda può seriamente compromettere l’equilibrio mentale che un grande atleta deve assolutamente conservare”.
A proposito delle possibilità di giocare i tornei, sempre tenendo presente che la situazione può cambiare rapidamente, la partecipazione di Djokovic agli Internazionali “dipende innanzitutto da lui. Se si iscrive, noi dobbiamo stare alle regole. Se arrivano giocatori in regola, non abbiamo nessun motivo per non accettarli”.
Arriva il momento per un’analisi del comportamento pubblico di Djokovic, con quanto successo nell’ultimo mese da un certo punto di vista tutt’altro che imprevedibile considerando che “la sua personalità è questa, è un personaggio molto controverso” rimarca Palmieri. “Si batte per delle cose in cui crede e rischia di persona. Il fatto che non è un esempio per i giovani, per quelli che si avvicinano al nostro sport, questo è assolutamente vero. Ma è la differenza che poi noi constatiamo da quindici anni a questa parte dove, nonostante il valore tecnico, sportivo di Djokovic, non ha mai avvicinato la popolarità e la credibilità che hanno Nadal e Federer, che sono amati e rispettati nel mondo non solo del tennis”.
Alla fine, dire di battersi per ciò in cui si crede suona sempre nobile, ha addirittura respiro epico, ma questo non deve far dimenticare che dipende anche da quello per cui ci si batte. Come diceva Daria Morgendorffer, “rimanete fedeli a ciò in cui credete, finché logica ed esperienza non vi contraddicono”.
ATP
Roger Federer a Vancouver per la Laver Cup: “Eventi così avvicinano la gente al tennis”
Federer dice la sia sul record Slam: “L’importanza è cresciuta quando Sampras cercò di superare Roy Emerson”

Si avvicina l’appuntamento con la sesta edizione della Laver Cup: da venerdì a domenica a Vancouver andrà in scena la competizione che oppone il Team Europe al Team World ideata tra gli altri da Roger Federer. Un’edizione che non avrà assoluti fuoriclasse come gli scorsi anni (col forfait di Tsitsipas se ne va anche l’ultimo top 5), ma presenterà comunque un buonissimo livello e sulla carta un equilibrio tra le due squadre.
Proprio lo svizzero, che 12 mesi fa in questo evento pose fine alla sua carriera, ha parlato delle premesse di questa manifestazione: “Saranno tre giorni intensi, sono molto curioso di vedere chi giocherà il doppio, ad esempio mi piacerebbe vedere insieme Hurkacz e Rublev. Anche nel Team World ci sono diverse combinazioni interessanti, da Taylor Fritz, a Ben Shelton fino a Frances Tiafoe“.
Parlando in generale della Laver Cup, Federer ha sottolineato l’unità di squadra che si viene a creare: “L’evento ha superato le mie aspettative. Si crea davvero un bello spirito tra i giocatori, pensare che l’anno scorso eravamo insieme io, Rafa, Novak e Andy è meraviglioso. Bellissimo è vedere l’atmosfera che creano Borg e McEnroe sulle due panchine“.
Un evento che non è solo una splendida esibizione, ma che l’elvetico crede possa essere utile per i giocatori: “Ciò che è importante per me è che i giocatori da questi giorni traggano insegnamenti, informazioni che si possono portare dietro in futuro. Hanno sicuramente imparato qualcosa parlando con McEnroe, Borg, o con Rafa, Novak o me“.
Eventi che possono ampliare la diffusione del tennis nel mondo: “Queste occasioni creano ricordi perché i bambini e i loro genitori possano ispirarsi e prendere in mano una racchetta da tennis per la prima volta oppure ad allenarti più duramente o hai avuto la possibilità di incontrare uno dei giocatori e volevi immedesimarti. Forse questo sarà un bel motore per molti junior nella parte occidentale del Canada“.
Federer ha commentato anche il 24° Slam vinto da Djokovic: “L’importanza del record degli Slam è cresciuta quando Sampras cercava di superare i 12 di Roy Emerson. Da lì in avanti questo record ha assunto più rilevanza“.
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Fallire Meglio: Marco Speronello come esperienza filosofica: “Anche creare qualcosa di bello è un obiettivo”
Il tatuaggio di Stan Wawrinka. Intervista con il tennista di Montebelluna: 15 anni fa batteva Goffin, oggi domina i tornei FITP. Come far vanto dell’accettazione dei propri limiti

Parte I – Sliding doors
Era il 1983 quando Samuel Beckett, il celebre scrittore e drammaturgo irlandese, componeva la sua penultima opera, una novella parodistica intitolata “Worstward Ho!”. All’epoca non destò troppa attenzione ma negli ultimi anni, con l’avvento dei memi su internet, soprattutto quelli motivazionali, un passaggio è divenuto celebre. Recita, in lingua originale, così:
Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better.
Sempre provato. Sempre fallito. Non importa. Riprova. Fallisci di nuovo. Fallire meglio.
In realtà il poema nel complesso è tutt’altro che motivazionale, analizza in chiave sarcastica e nichilistica l’assurdità di perseguire obiettivi per poi trovarsi, come unica ricompensa, a “Fallire meglio”.
Ma poco importa: il pubblico del web ha deciso di estrapolare un segmento da un contesto più ampio per fargli significare una cosa bella, positiva, moderna, e chi sono esegeti, o Beckett stesso, per dire altrimenti? Il concetto del “Fail Better” nasce e si sviluppa così nella cultura generale all’inizio dello scorso decennio.
Con conseguenze anche nel mondo del tennis. In un giorno ben preciso, il 28 marzo 2013, seguendo i paradigmi del Butterfly effect, un neo 28enne svizzero decide di tatuarsi questa frase sull’avambraccio come regalo di compleanno. Non è propriamente un fallito, ma una persona di successo. Un tennista che ha un gran bel curriculum all’attivo: una finale di un Masters 1000 persa a Roma nel 2008 da Djokovic, due quarti di finale negli Slam e, soprattutto, un oro Olimpico vinto in doppio con il suo amico e connazionale Roger Federer.
Il ventottenne Stanislas Wawrinka però sente di aver in qualche modo fallito nella carriera: sa di valere molto di più dei risultati che ha ottenuto, dei soli tre tornei 250 in bacheca (Umago, Rabat, Chennai). Ha appena giocato una partita storica agli Australian Open, cedendo al quinto set negli ottavi, nuovamente da Djokovic, che ha contribuito a rafforzare la sua nomea di “perdente di lusso”. La top ten, accarezzata nel 2008 a soli 23 anni, si è allontanata e la sua carriera, ormai al giro di boa se non oltre, si è stabilizzata su un continuo di risultati ottimi ma non eccezionali. Difficile immaginare che nella seconda parte di carriera, Stan possa portare a casa più di quanto fatto nella prima.
Eppure quel tatuaggio cambia tutto: lo svizzero si ritrova quella frase davanti agli occhi ogni volta che prende una pallina in mano, lo motiva, e fra il 2014 e il 2016 dà origine al più incredibile cambio di passo visto in tutta la storia del tennis. L’uomo che sentiva la tensione dei grandi appuntamenti, che ci andava “sempre vicino”, vince 11 finali consecutive, tra cui tre titoli Slam e un Masters 1000, oltre a una Coppa Davis, stabilendosi al terzo posto del Ranking mondiale. Diviene per tutti “Stan the man”, “L’uomo tempia”, un supereroe capace di non dubitare mai nei momenti che contano.
Il tutto per un tatuaggio.
Un tatuaggio che Marco Speronello non si è mai fatto.
Parte II – La grande occasione
Non sarà magari colpa del tatuaggio, ma Marco il potenziale per sedersi al tavolo dei top100 lo avrebbe anche avuto. Certo, di Wannabe nel campo dello sport è pieno il mondo, alzi la mano chi non conosce un amico o un parente che se non fosse successo X, oggi sarebbe portiere titolare almeno in Serie B. Per il nostro (anti)eroe però parlano i fatti: a 16 anni era uno dei prospetti più promettenti per il tennis italiano, sotto stretta osservazione e cura della FIT (all’epoca senza “P”). Non ha mai incrociato la racchetta con Wawrinka, del quale è qualche anno più giovane, ma essendo classe ’91 ha giocato con i maggiori talenti della “generazione perduta”, battendoli spesso e volentieri.
La carriera di Marco si divide in due parti: fino al 2007 è costellata di successi e di prestazioni promettenti. Figlio di un proprietario di un piccolo circolo del trevigiano, a 12 anni gioca il suo primo torneo di una certa importanza, l’Open under12 di Auray in Bretagna. Per risparmiare la famiglia prenota in anticipo il volo di rientro per il sabato. Dovranno rinviarlo al lunedì, perché Marco vince il torneo che fu, qualche anno prima, di Rafa Nadal e poi di Andy Murray. Nel 2005, a quattordici anni, si ritrova a Tarbes per uno dei più importanti tornei al mondo in quella fascia d’età; sopra 6-2 5-3 40-15 contro un coetaneo bulgaro, tale Grigor Dimitrov, spreca molteplici matchpoint e perde 7-5 al terzo. Per la prima volta sente una frase che lo perseguiterà tennisticamente per quasi tutta la carriera: “Hai perso una grande occasione”.

Parte III – Noi falliti siamo il 99%
La formazione dell’adolescente Marco procede comunque bene. D’altro canto, proprio in quel torneo qualche anno prima Nadal perse un match tirato contro Gasquet, e guarda adesso che sono Pro come si sono ribaltate le gerarchie. Per altri due anni tutto fila secondo agenda: Marco Speronello decide (o altri per lui) di non partecipare agli Slam junior, un po’ come le sorelle Williams. Procede con disciplina infilando qualche vittoria importante qua e là. In un torneo ETA in Repubblica Ceca incrocia per la prima volta un belga mingherlino, David Goffin, e lo sconfigge con un perentorio 6-2 6-2.
Quando c’è da fare l’ultimo salto, quello più difficile, qualcosa però si inceppa. Distrazioni, propensione al sacrificio, disciplina, chissà cos’è che non funziona più come prima: la carriera improvvisamente prende la piega del 99% dei tennisti: ovvero quelli che non riescono a infilarsi per la stretta porta che conduce al professionismo. Marco vede gli amici e compagni di formazione Giannessi e Cecchinato infilare risultati importanti mentre lui fatica a saltare l’ultimo ostacolo. Per tre anni girovaga per Futures senza acuti, le finanze cominciano a diventare un problema, le “occasioni perse” sono sempre di più, fino a fondersi come un mostro in un’unica, grande Occasione Persa: il salto al professionismo.
Il giorno del suo ventesimo compleanno, invece di festeggiare come i suoi coetanei, è triste in una stanza di un albergo in Florida dopo l’ennesima sconfitta contro un americano un po’ smargiasso che lo insulta per tutto il match, si chiama Jack Sock e si impone 7-5 7-6. E non può neanche bersi una birra perché non ha l’età per l’alcool negli States.
Ormai il treno è passato: manca l’entusiasmo, il divertimento che è essenziale al tennis spumeggiante e pirotecnico di Marco. Seguono tre anni senza reali speranze, barcamenandosi in risultati inferiori a talento e aspettative come un Wawrinka pre 2014. E proprio in quell’anno, mentre il suo alter ego distopico raccoglie trionfi in giro per il mondo, Marco decide che la rincorsa senza fine al professionismo non fa più per lui. Il primo settembre 2014 gioca e perde, con un doppio 6-4, il suo ultimo match a livello Futures, a Trieste, contro un giovane torinese: Lorenzo Sonego.
Parte IV – La fine è il mio inizio
Per tutti questi motivi, se oggi gli altri nomi citati in questo articolo rilasciano interviste in sale stampa gremite in giro per il Mondo, Marco Speronello invece ci raggiunge volentieri per una chiacchierata nel suo amato Veneto, vicino a Montebelluna dove è nato e cresciuto e ancora oggi risiede. Ha 31 anni e ha una mentalità e una filosofia, sportiva e di vita, diversa. Distante dallo stress e dalle ansie di prestazione del circuito maggiore, si diverte lavorando come istruttore di tennis tre giorni a settimana. Negli altri, gioca tornei FITP in zona. Li vince quasi tutti, anzi: li vince come nessun’altro. 111 titoli (and counting…) da quando ha cominciato la seconda parte della sua carriera, quella amatoriale. Un record che probabilmente non verrà superato per molto tempo.
“In molti tendono a descrivere la mia carriera dicendo che sul più bello, quando dovevo cominciare, ho smesso. Ma io la vedo all’esatto opposto: ho iniziato davvero quando ho finito“.
In mezzo alla narrativa usuale che premia come storie di successo chi ha saputo sconfiggere avversari e avversità, chi (come ad esempio Agassi) ha sentito la missione di dover sfruttare il suo talento come un dovere più che un piacere, l’attitudine di accettazione dei propri limiti di Marco Speronello è una novità: anche se i suoi corrispettivi ad alti livelli, leggasi Kyrgios e Bublik, non mancano. Gente che avesse preso il tennis più sul serio, probabilmente avrebbe raccolto di più. Ma che proprio in questo limbo han trovato la loro dimensione.
Uno dei momenti che più lo hanno fatto riflettere e lo hanno instradato verso la seconda parte della sua carriera è stato assistere, a 19 anni, a una partita di Roberto Palpacelli, probabilmente il più noto esempio di talento sprecato in Italia. Sul “Palpa”, che come Marco aveva un futuro promettente da adolescente, sono stati scritti articoli e biografie a non finire, incentrati soprattutto sulla sua discesa agli inferi della tossicodipendenza, i guai con la legge e la riabilitazione.
“Lo vidi giocare all’Open di Fano quando avevo 19 anni e fu per me un’esperienza mistica. Come una mostra d’arte, vidi un tipo di tennis raro e mi riconciliò con il concetto che il risultato non era tutto, anche il semplice creare qualcosa di bello poteva essere un obiettivo. D’altro canto, da ragazzino mi innamorai del tennis grazie a Ivanisevic, un altro che era genio e sregolatezza. La finale di Wimbledon del 2001 contro Rafter resta per me il più bel match della storia del tennis”.
Non spericolato negli eccessi autodistruttivi come Palpacelli, né disciplinato alla ricerca di un obiettivo come gran parte dei professionisti.
“Ma qualche eccesso l’ho avuto anch’io: cinque finali giocate (e tutte vinte) dopo aver dormito in macchina fuori dal circolo al termine di una serata di festa. E una volta ruppi tutte le racchette, l’ultima sul 6-5 per il mio avversario al terzo set. Me ne feci prestare una dal pubblico con la quale tenni il servizio e poi vinsi il tie-break finale. Non contento mi ricapitò una cosa simile l’anno seguente, a Verona: stavolta però l’ultima racchetta non la spezzai di proposito, si ruppero le corde. Quella volta non si trovò nessuno che me ne prestasse un’altra e dovetti concedere l’incontro”.
Oggi Marco si è costruito un seguito di affezionati, un pubblico che affolla i campi dove gioca nella speranza di vedere qualche magia del “Bublik Italiano”.
“Mi hanno spesso definito così, e forse è vero. Ho un tennis creativo, il mio colpo migliore è il back di rovescio, ma ciò che mi rende noto nell’ambiente sono le mie palle corte in risposta. Il mio preferito però è Djokovic. Fra i giocatori di club, di solito come preferenze vanno per la maggiore personaggi come Federer, Bublik e Kyrgios; i tennisti amatoriali li apprezzano perché vorrebbero imitare le cose che fanno loro. Io, al contrario, ho una buona manualità con la racchetta, ma ciò che mi è mancato in carriera è la disciplina, l’inclinazione a migliorarmi passo per passo. E di conseguenza ho grande ammirazione per chi persegue questa “Volontà di Potenza”.
Che Speronello sia divenuto un’istituzione nel mondo dei tornei FITP lo dimostra anche l’aver attirato l’attenzione di uno sponsor, evento inusuale a questi livelli
“Qualche tempo fa, al termine di un torneo a Desenzano, durante una serata al pub dopo la finale, ho incontrato la titolare di un frantoio sul lago di Garda, appassionata di tennis. Da lì è sorta una collaborazione: mi sostengono non solo economicamente ma anche con qualche consiglio sulla dieta, e ne ho beneficiato. Non devo più preoccuparmi delle mie riserve di olio per molti anni adesso. Io dal mio canto gli ho introdotto Alessandro Giannessi, e si sta formando un piccolo team”.
Parte V – Questione di palle
A luglio di quest’anno “Spero” ha fatto un’eccezione ed è tornato a giocare, grazie a una wild card, un match in ambiente Challenger, alle qualificazioni di Verona. Ha perso in tre set dal giovane promettente Vincent Ruggeri. Un’altra “occasione persa”, come le sei volte in cui ha vinto le pre-qualificazioni per il Masters di Roma senza mai riuscire ad accedere al tabellone principale.
“Il mio problema quando torno a giocare match in ambiente ITF e ATP non è tanto il livello, grossomodo ho ancora il tennis per fare buona figura. Ma nei tornei cui mi sono dedicato, si gioca un intero match con lo stesso tubo di palline. Quattro palle per tutta la partita. Non sono più abituato alle palle nuove ogni nove game. Sono un giocatore da palle consumate, il cambio palle è aristocrazia, divisione di classe”.
Osservando le cose da un punto di vista dei risultati, è un peccato che un giocatore con le sue potenzialità non abbia mai vinto neanche un titolo ITF. Ma parlando con Marco si ha l’impressione che oggi sia davvero, tennisticamente, nel posto dove vuole stare. Non ci sono rimpianti per quello che poteva essere, ma apprezzamento per la realtà del quotidiano.
“A volte mi chiedono perché non mi sia impegnato di più nell’altra strada, quella del professionismo, dato che gioco così bene per il livello in cui mi cimento. Io penso di giocare bene proprio perché ho scelto questa strada. Ho una visione artistica del tennis, e ora posso investigarla a cuor leggero. Negli anni in cui le cose andavano male spendevo anche 40mila euro a stagione, andavo in perdita ed era divenuto un ulteriore peso a livello psicologico”.
“Oggi con i tornei Open, guadagno tra i mille e i duemila euro quando vinco, cui vanno tolte le tasse e le spese. Qualificarsi a uno Slam finanziariamente equivale ad oltre un anno di vittorie Open, ma ciò che conta per me è anche avere un ritorno qualitativo del mio tempo: poter giocare vicino a casa, ad esempio. Fin da quando ero ragazzo andare in giro l’ho sempre sentito come un peso”.
“Non sono un grande appassionato di tennis. Ancora oggi è il mio lavoro, e lo seguo abbastanza, ma c’è altro nella vita e non lo vedo come la mia occupazione a lungo termine. Per me il tennis deve essere divertimento non solo in campo ma anche fuori. Oggi scelgo i tornei secondo alcuni criteri: la vicinanza da casa, il rapporto con gli organizzatori, ma anche il rinfresco: ho una mia classifica personale di tornei con il miglior servizio catering, e giocarli è una motivazione extra”.
Parte VI – Fallire meglio
“Se si dovesse definire la mia carriera, allora è stata onestamente un fallimento: l’obiettivo da ragazzo era entrare in top100 (mentre ha un best ranking da 1028, ndr). Ma anche nel fallimento si può trovare uno stile. Guardandomi indietro, ho fatto tutto ciò che mi piace entro i limiti. Mi sono scostato dal concetto che io debba essere una cosa sola con i risultati che ottengo. Non ho un collegamento identitario con le mie doti: il mio lato espressivo è la cosa che conta di più. Se il circuito maggiore è Eric Clapton, i tornei Open sono gli 883: entrambi possono piacere ed avere i propri pregi”.
Nel 2006 David Foster Wallace, folgorato dal tennis paradisiaco del Maestro svizzero (quello non tatuato), scrisse uno dei suoi saggi più celebri: “Roger Federer come esperienza religiosa”. Marco Speronello non è Roger Federer, ma insegnamenti importanti possono arrivare anche osservando le storie di chi “non ce l’ha fatta”. O meglio, ce l’ha fatta diversamente, apprendendo che la vita è anche zeppa di occasioni perse. Magari la gioia di sapere che a fine torneo ci sarà uno dei migliori rinfreschi del panorama tennistico veneto non è paragonabile a quella di sollevare un trofeo dello Slam. Però è pur sempre gioia.
Coppa Davis
Coppa Davis: terreno fertile per l’Olanda che 100 anni dopo cerca la vittoria sull’Italia
Secondo anno consecutivo ai quarti per l’Olanda in Davis, pericolosa nei doppi con Koolhof e Roger. Un po’ spuntata nel singolare

Il sorteggio ha parlato: a Malaga dal 21 novembre inizieranno le fasi finali e l’Italia ha pescato per i quarti di finale i Paesi Bassi.
È trascorso un secolo da quando la squadra olandese di Coppa Davis fece il suo primo ingresso in campo. Nonostante gli 8 precedenti incontri con gli azzurri però, l’Olanda è riuscita a portare a casa soltanto una vittoria, nel 1923. Due volte è andata vicino al pareggio, perdendo 3-2: nel 1926, e 7 anni dopo, nel 1933.
Eccetto questi due episodi, le vittorie sono sempre state nette a favore degli azzurri: nel 1931, così come nel ’53 e nel ’57, gli azzurri hanno lasciato a 0 gli olandesi. E anche se tra gli ultimi due incontri (1972 e 2010) sono dovuti passare 38 anni, il risultato è rimasto lo stesso 4-1 per l’Italia. Ma gli azzurri non devono abbassare la guardia, perché i doppisti olandesi, sulla carta, sono più forti.
Il capitano della squadra olandese di oggi, Paul Haarhuis, può contare su due top 100 nei singoli, Tallon Griekspoor e Botic Van de Zandschulp. Nel doppio invece ci sono due specialisti in corsa per le Nitto ATP Finals di Torino, Wesley Koolhof e Jean-Julien Rojer. Ed è proprio nella storia dei doppi maschili che l’Olanda vanta un’ottima reputazione, dagli anni ’60 di Tom Okker, l’unico olandese ad essere diventato numero 3 del mondo in singolo e numero 1 in doppio, conquistando 78 titoli in doppio e raggiungendo almeno le semifinali in tutti i tornei del Grande Slam. Seguito dal capitano attuale, Paul Haarius, in coppia con Jakko Eltingh, che negli anni ’90 hanno letteralmente dominato il circuito, completando il Grande Slam nel 1998 quando i due si aggiudicarono Roland Garros e Wimbledon.
Sicuramente, sono lontani gli anni in cui l’Olanda vide finalmente un olandese alzare al cielo il primo trofeo slam, con Richard Krajicek nel 1996, diventando anche l’unico a battere Pete Sampras a Wimbledon nei quarti di finale. Ma non bisogna dimenticare che, per la prima volta nella storia, questo è il secondo anno consecutivo in cui l’Olanda raggiunge i quarti di finale in Coppa Davis.
L’anno scorso erano stati eliminati dall’Australia 2-0, finalista di Coppa Davis. Quest’anno hanno vinto un girone D di tutto rispetto, posizionandosi davanti alla Finlandia per un posto sull’aereo per Malaga. E anche se non hanno top players particolarmente rilevanti in singolo, sappiamo per esperienza che questo in Coppa Davis non conta. Non è mai come nel circuito normale, si gioca per la squadra, si gioca con il cuore. Il nostro Lorenzo Sonego, per esempio, l’anno scorso ha dimostrato che dopo una serie di partite girate male, è stata la Coppa Davis a ridargli fiducia. Non si è da soli, l’energia arriva da molto più vicino del solito.
L’Olanda proverà quindi a raggiungere almeno quel traguardo lontano del 2001, quando per la prima e unica volta, raggiunse la semifinale contro la Francia. Mentre gli azzurri dovranno continuare la tradizione di vittorie, portandosi così allo straordinario risultato di 8 vittorie a 1 per l’Italia.