US Open – Jannik Sinner, quanto brucia questa sconfitta. Non cesserà di pensarci. È o sarà mai un “bounty-killer” come Nadal e Djokovic?

Editoriali del Direttore

US Open – Jannik Sinner, quanto brucia questa sconfitta. Non cesserà di pensarci. È o sarà mai un “bounty-killer” come Nadal e Djokovic?

È stato fantastico contro Alcaraz, eppure è stato anche un festival delle occasioni perdute, oltre che recuperate. Non voler perdere è uguale a voler vincere?

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Jannik Sinner - US Open 2022 (foto: twitter @rolandgarros)
 

Brucia da morire perdere un match con il matchpoint quando si poteva conquistare la prima semifinale di uno Slam. Almeno fino all’Australian Open Jannik non cesserà di pensare all’opportunità perduta, quella che avrebbe potuto spalancargli le porte anche al primo trionfo in un Majors, dal momento che superato Carlitos Alcaraz anche Frances Tiafoe prima, Casper Ruud o Karen Khachanov, tutti già battuti, avrebbero potuto essere battuti nuovamente.

Non cesserà di pensare al fatto che sul matchpoint Alcaraz gli ha sparato un cannonball di servizio in pancia, mentre lui sul proprio matchpoint sul 5-4 nel quarto set non era riuscito invece a mettere dentro la “prima” e con la seconda si era esposto per l’ennesima volta alla risposta aggressiva di Carlitos, incessantemente invocata da Juan Carlos Ferrero.

Non cesserà di pensare che 11 doppi falli sono troppi e che i primi 3 commessi nel primo game del match hanno dato l’abbrivio allo spagnolito per vincere il primo set e procurarsi un vantaggio anche psicologicamente importante.

Non cesserà di pensare che pur avendo giocato un match di qualità stratosferica, con scambi spesso entusiasmanti e strappa applausi, a questi livelli non ci si può permettere di perdere 11 volte il proprio game di servizio.

Non cesserà di pensare che troppo spesso in questi primi anni di carriera gli è capitato di perderlo quando serviva per un set o, peggio, per un match. E non è certo una consolazione ricordarsi che questo è capitato spesso anche a sua Maestà Roger Federer.

Non cesserà di pensare che nel corso di una partita, anche molto prima di fallire la trasformazione di un matchpoint, ci sono momenti in cui l’avversario attraversa una evidente fase di crisi e in quei frangenti ci vuole il killer-instinct di chi lo azzanna alla gola e non gli consente di riprendere fiato e vigore.

Non cesserà di pensare che quei momenti ci sono stati all’inizio del quarto set, quando dopo aver dominato per 7 punti a zero il tiebreak del terzo set è subito passato a condurre 2-0, 3-1. Lì il match andava “ucciso”.

Non cesserà di pensare che lui stava per battere per la terza volta consecutiva, ma nell’occasione più importante  e memorabile, un giocatore che alla fine di questo weekend potrebbe essere il n.1 del mondo. E che se non lo sarà questo weekend lo sarà certamente poco più in qua.

Non cesserà di pensare che forse anche lui potrebbe avere bisogno, oltre che di Vagnozzi e Cahill che hanno portato indubbiamente maggior varietà al suo tennis, di un mental coach come hanno tanti.

Non cesserà di pensare che al quinto set, sia pur dopo 5 ore – con 5h e 15 m la seconda partita più lunga della storia dell’US Open dopo la semifinale Edberg-Chang del ’92, 5h e 26 m che ricordo benissimo e nella quale lo svedese vendicò la sconfitta patita nella finale del Roland Garros di 3 anni prima – lui era decisamente più stanco di Carlitos, tant’è che avanti per 3-2 e di un break, non è più stato in grado di fare un solo game contro i 4 dello spagnolo.

Non cesserà di pensare che tutti i complimenti che tutti gli continueranno a fare per questa sua partita straordinaria coincisa con la più crudele delle sconfitte altro non fanno che mettere il dito in una piaga dolorosissima, di quelle che fanno un male cane, del diavolo, sì, proprio quel demone che governa quello splendido gioco che si chiama tennis e per il quale questa dannata semifinale è stata un fantastico spot, uno spettacolare trailer per tutti i prossimi duelli di questi due Next-Gen che però oggi celebrano un vincitore e un vinto. Che male.

Non cesserà di pensare che nonostante abbia dimostrato di poter giocare alla pari per 2 ore o 5 con Djokovic a Wimbledon e con Alcaraz a New York alla fine lui ha perso, e Dio solo sa come odia perdere, e l’avversario ha vinto. Uno è stato un vincente, l’altro, e un altro, lui, un perdente.

Non cesserà di pensare: “Ma come faccio a far sì che tutto ciò non si ripeta all’infinito?” Ma a quest’ultimo interrogativo lui la risposta ce l’ha ben chiara in testa e la riassumerà in una sola parola ripetuta tre volte, e da noi già ascoltata mille: LAVORO, LAVORO, LAVORO. E le lettere maiuscole non sono un refuso.

Non cesserà di ripetersi che il rappresentare un orgoglio italico non gli basta. Non è ragazzo che – al contrario dei suoi sponsor – si bei delle passerelle televisive. I suoi obiettivi sono chiari, anche se terribilmente ambiziosi: diventare n.1 del mondo. Non firmerebbe per accontentarsi di diventare il n.3 come un David Ferrer. E soprattutto ora che i Fab Four sono sull’orlo della pensione.

Chiudo questo leitmotiv, che si ispira anche a certe carenze tecniche sulle quali ha già messo mano, ma ce ne sono ancora parecchie, l’affidabilità del servizio soprattutto, riprendendo poche righe scrittemi oggi da un caro e stimato collega del Resto del  Carlino, Massimo Cutò: “Ubi ciao, più passano le ore e più aumenta il dispiacere per il match di stanotte. Un millimetro, un quarto di riga, un nastro malevolo e tutto vola via. Lo sappiamo. La differenza è infinitamente piccola. Lo sappiamo. Ma mi chiedo e ti chiedo se certe volte Sinner, che mi emoziona sempre, non soffra di un problema strutturale.  Provo a spiegarmi. È formidabile nel restare attaccato alla partita perché rifiuta l’idea di arrendersi. Non accetta l’ipotesi  sconfitta. Mai. Gli è invece più difficile spingere giù il rivale-nemico che ha condotto sull’orlo del burrone. È un bravissimo ragazzo, gentile, bene educato, che non si eccita all’odore del sangue come Nadal e Djoko, bounty killer professionisti. Non voler perdere a tutti i costi non è uguale a voler a tutti i costi vincere. Sembra un paradosso ma è così. Tu che pensi?”

Io penso che tennisti fenomeni come Nadal e Djokovic, implacabili giustizieri quando ancora non avevano la barba, nascano ogni morte di Papa. E che Jannik Sinner non appartenga né oggi – e quasi certamente mai – a quella stessa categoria extraterrestre.

E anche se Brad Gilbert mi ha detto a Wimbledon che a parer suo Carlitos Alcaraz è il solo dei tennisti in attività che potrà andare oltre i 10 Slam in bacheca… e io certo tengo conto che Carlitos è ancora un teenager (2 anni di divario anagrafico pesano più di quanto non si creda quando si ha l’età di Carlitos e di Jannik), prima di considerare Alcaraz un assoluto fenomeno alla stregua di Nadal (22 Slam) e Djokovic (21 Slam), quando per Nadal c’era Djokovic e per Djokovic c’era Nadal (e per tutti e due un certo Federer) voglio aspettare almeno un quinquennio prima di sbilanciarmi e… analizzare anche la forza dei competitors.

La risposta su Sinner (e su Alcaraz che ieri aveva perso se Jannik metteva a segno un ace in più al momento giusto) oggi come oggi è prematura. Ci sono tanti che vogliono fargli fretta. E anche tanti che esagerano nel sostenere che ci vuole pazienza citando tanti campioni “serial-killer” che a 21 anni avevano già vinto Slam. Quei nomi di campioni, chi legge abitualmente Ubitennis li conosce e non c’è bisogno che io li riscriva qui.

Se in Italia i nostri campioni di varie discipline sportive (e non solo tennis, ma soprattutto tennis) sono quasi sempre cresciuti agonisticamente intorno ai 24/26 anni, anche per via di un certo tipo di pressioni che scaturiscono da un ambiente federalsportivo italico che può arrivare a “contaminare” in parte anche un giovanotto altoatesino certo più maturo, serio e determinato di tanti suoi coetanei, il Pel di Carota della Val Pusteria può essere l’eccezione che conferma la regola, ma entro certi limiti. Un pochino di tempo è giusto darglielo. Perché il tennis è uno sport – forse più di molti – di nervi, di fiducia. Avete visto come sta giocando in questi giorni Frances Tiafoe. E come hanno giocato per mesi Carlos Alcaraz, Iga Swiatek. Basta poco per trasformare un tennista irresistibile in un giocatore nervoso e battibile, così come viceversa. Il giovane tennista che oggi pare poco cattivo, domani può trasformarsi in un giocatore implacabile e impietoso, capace di maramaldeggiare su un rivale ferito a morte. Secondo me, anche se Jannik non è e non sarà un fenomeno tipo Nadal e Djokovic, può diventare meno… misericordioso. Killer? Forse no.

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