Personaggi
L’addio silenzioso di Lucie. Con un rimpianto
Lucie Safarova ha annunciato che si ritirerà sulla soglia dei 32 anni, dopo aver disputato l’Australian Open per l’ultima volta. Un braccio sinistro che avrebbe potuto, forse dovuto, conquistare Parigi tre anni fa

C’è tanto di Lucie Safarova nel ventunesimo game della finale del Roland Garros 2015, l’unica giocata dalla tennista di Brno. Di fronte alla sfida estrema del tennis femminile moderno, ovvero affrontare Serena Williams in una finale Slam, sotto di un set, di un break e con il baratro a tre passi, Lucie tira un disperato ceffone mancino in lungolinea con il quale destabilizza Serena. Poi, cercando la palla con troppa pigrizia, sotterra a rete il dritto successivo e manda la statunitense a due punti dal ventesimo Major. La paura si è spesso impadronita di Lucie nel corso della sua carriera, facendosi strada tra le maglie larghe della sua emotività e lasciando privo di protezione un tennis di rara brillantezza.
Nel compendio di Lucie Safarova che è quel game, il punto successivo è infatti un dritto lungolinea dal centro del campo che atterra sulla riga. E un paio di minuti più tardi, per convertire l’occasione che trascinerà quella finale al tie-break e poi al terzo set, la tennista ceca si inventa un meraviglioso rovescio lungolinea anticipato che fotografa la vana rincorsa di Serena. Il rovescio rimarrà nel bilancio della carriera di Safarova un colpo nobile, assieme il più decisivo e il meno stabile, capace di rendere memorabili le sue prestazioni o affossarle. Come l’insicurezza che probabilmente le ha impedito di andare oltre una carriera di prestigio, benché senza l’acuto che in tanti hanno continuato ad attendere sino alla fine. Grossomodo fino a sabato, quando ha convocato i giornalisti a Praga dove si è recata per sostenere le sue compagne impegnate nella finale di Fed Cup: di fronte ai soli cronisti cechi, in una conferenza tenuta interamente in lingua, Lucie Safarova ha annunciato che si ritirerà dopo l’Australian Open 2019.
CARRIERA – Safarova non è stata solo un’ottima singolarista, capace di vincere sette titoli – il più prestigioso a Doha, nello stesso 2015 della finale persa a Parigi – e di un best ranking da numero cinque del mondo ottenuto al termine della sua miglior stagione, impreziosita dalla prima e unica partecipazione alle Finals. Safarova è stata soprattutto una grande doppista. In coppia con Bethanie Mattek-Sands, divertendosi e divertendo, ha vinto cinque Slam centrando due volte la doppietta Australian Open-Roland Garros (2015 e 2017) e vincendo lo US Open nel 2016, risultati che le hanno permesso di vestire i panni della numero uno di doppio per cinque settimane tra agosto e settembre 2017.
Un’altra relazione particolarmente fulgida è stata quella tra Lucie Safarova e la Fed Cup, certo facilitata da una scuola tennistica che non accenna a smettere di produrre giocatrici di qualità. Lucie ne ha vinte quattro, almeno tre delle quali da grande protagonista. Su tutte la vittoria del 2012, stagione in cui la tennista è scesa in campo a partire dalle semifinali vincendo tre partite fondamentali: l’incontro di apertura della semifinale contro l’Italia, avversaria Francesca Schiavone, e i due singolari della finale contro la Serbia che l’hanno vista schiantare Jelena Jankovic e Ana Ivanovic.
La stessa Ivanovic sconfitta nel sesto incontro della (quasi) trionfale cavalcata a Porte d’Auteuil del 2015, impreziosita dagli scalpi di Sharapova (campionessa in carica) e Muguruza che quel torneo l’avevano già vinto o lo avrebbero presto vinto. Quando si ha il talento per arrivare in fondo a un grande torneo ma si difetta della continuità per riuscirci con frequenza, serve anche un pizzico di fortuna. Trovarsi di fronte un grande versione di Serena Williams al termine di due settimane in cui si dimostra di poter battere praticamente chiunque, non è certo l’abbraccio della buona sorte.
L’epilogo della carriera di Lucie in fondo è congruente con il suo sviluppo. Equilibrato, come il suo tennis in grado di adattarsi a tutte le superfici forse più delle connazionali, che hanno palesato qualche sintomo di allergia alla terra battuta; un lascito della formazione polivalente che la federazione ceca garantisce ai suoi atleti, come ebbe a dire una volta la stessa Lucie. Anche instabile, come i suoi colpi tanto proiettati all’attacco da farle a volte perdere l’appoggio di entrambi i piedi e renderla preda ideale dei fotografi, che amano gli eccessi e le giocatrici in volo molto più della regolarità. In qualche modo prevedibile, sulla base degli ultimi deludenti risultati che l’hanno esclusa dalla top 100 (ora è n.106), e comunque sorprendente perché a tre mesi dai 32 anni si può anche pensare di ricominciare. Evidentemente per Safarova è stato sufficiente così, anche per una serie di altre ragioni.
Prima tra tutte gli infortuni, causati prevalentemente – per sua stessa ammissione – ‘dallo stress e dai continui viaggi’. Non tutti gli atleti hanno la stessa resistenza e la stessa capacità di ricostruire il puzzle dopo un colpo di sfortuna: l’infezione batterica che ne pregiudicò le prestazioni alle Finals del 2015, duramente conquistate sul campo, e l’infortunio al polso che le impedì di concludere al meglio la scorsa stagione e non l’ha mai realmente abbandonata fino a convincerla che era il caso di smettere. Lucie lascerà il tennis con 22 titoli complessivi (15 in doppio), 4 Fed Cup e una medaglia olimpica, il bronzo conquistato nel 2016 a Rio in coppia con Strycova. E un grosso rimpianto, perché forse quel Roland Garros avrebbe dovuto vincerlo lei.
Coppa Davis
Coppa Davis, Jannik Sinner “caso Nazionale”: per me è colpevole
Immagine, uguaglianza e spirito di squadra: perché pensiamo che Jannik Sinner abbia sbagliato a rifiutare la convocazione in Coppa Davis

“Sfortunatamente non ho avuto abbastanza tempo per recuperare dopo i tornei in America e purtroppo non potrò far parte della squadra a Bologna. È sempre un onore giocare per il nostro paese e sono convinto di tornare in nazionale al più presto. Un grosso in bocca al lupo ai ragazzi, ci vediamo” recitava il tweet di Jannik Sinner.
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Immagine pubblica, modelli e confronti
Nonostante la chiusura con un cuore e la bandiera italiana e il durissimo match allo US Open perso con Zverev dopo 4 ore e 41 minuti, a molti la decisione non è affatto piaciuta, una motivazione giudicata insufficiente, una scusa. Tra le critiche, ha ventidue anni, c’era più di una settimana per recuperare, e allora Djokovic, che di anni ne ha trentasei e a New York ha disputato tre match in più, eppure ci sarà? Il confronto a prima vista impietoso in realtà dimentica che Novak gioca un circuito a parte in cui si presenta quando gli fa comodo (come le regole gli permettono). Nole era ancora nella fase di riposo post-Wimbledon quando Jannik vinceva Toronto, lo slam americano è stato il suo decimo torneo dell’anno (diciassettesimo per Sinner) e avrebbe poi saltato l’intera tournée asiatica.
Nonostante tutti i distinguo elencati, pensiamo (questa e ogni altra prima persona plurale da intendersi come opinione di chi scrive) che Jannik abbia sbagliato a chiamarsi fuori. Non perché l’Italia abbia rischiato l’eliminazione (quello che è successo dopo il rifiuto qui non ci interessa) e nemmeno, a prescindere da quanto detto, dalla presenza di Djokovic. Questo secondo motivo ha invero una sua validità, poiché la percezione spesso conta quanto e più di una realtà articolata. E la percezione di molti appassionati e addetti ai lavori si è risolta in un pollice verso. In alcuni casi superando il limite (sempre a nostro avviso), con frasi come quelle apparse su Sport Week della Gazzetta: “E se Jannik Sinner, il Peccatore, chiedesse scusa del suo peccato? Non all’Italia o agli italiani ma a se stesso”.
Parliamo della programmazione sportiva di un giovane atleta, non di rappresentanti delle istituzioni che calpestano la Costituzione. Perché finché si scherza sul cognome di Jannik è un conto, ma usarlo impropriamente (Sinn in tedesco significa senso, non peccato) per montare quella che sa di stantia retorica cattolica, anche no. Al contempo, troviamo ragionevole il concetto di fondo.
Tornando alla percezione, all’immagine pubblica – oltre all’innegabile fatto che un top player è anche un modello per giovani e giovanissimi –, non possiamo non rilevarne l’importanza per un professionista, anche in forza della correlazione tra apprezzamento dei tifosi e sponsor, tanto che valutazioni commerciali possono mettersi di traverso con quanto hanno in mente coach, fisio e preparatori atletici. Citiamo solo i recenti casi di Matteo Berrettini, ancora non in condizione al Boss Open di Stoccarda, e di Emma Raducanu, che ha saltato la BJK Cup (se non rimandato gli interventi chirurgici) in favore del Porsche Tennis Grand Prix di… Stoccarda. A proposito di Berrettini, l’assenza bolognese di Jannik è stata ancor più rumorosa per la presenza in panchina di Matteo: “Il suo è stato un comportamento da leader” ha commentato il presidente della FITP Angelo Binaghi.
Uno per tutti, tennis per uno
A favore della scelta di Sinner, l’obiezione per cui il tennis è uno sport individuale: il giocatore rappresenta sé stesso e decide il meglio per la propria carriera. Forse a un calciatore del Napoli non importa della propria carriera solo perché durante quei novanta o quaranta minuti passa (o non passa) la palla a un compagno libero? Calciatori, cestisti, pallavolisti, tutti possiedono verosimilmente il cosiddetto “spirito di squadra”, caratterizzato dal senso di appartenenza, dalla condivisione degli obiettivi, dalla cooperazione. Però, la squadra che si nutre di questo spirito è l’Inter, è la Virtus, è il Modena Volley, non la nazionale. Dopotutto, se il pallavolista gioca lo stesso sport che si tratti di Serie A o Mondiali, lo stesso vale per il tennista in un torneo individuale o in un incontro a squadre: Musetti era in campo da solo allo US Open ed era in campo da solo a Bologna in Davis. E, probabilmente, rappresenta più l’Italia uno dei nostri tennisti in giro per il Tour che un club del pallone in Coppa dei Campioni. Non si chiama più così? Sta’ un paio d’anni senza seguire il campionato e ritrovi un altro mondo.
Al passo con i tempi
Senza dunque grosse differenze a seconda che in campo ci siano uno o più atleti, la convocazione dovrebbe in ogni caso essere percepita come un onore: scelto per rappresentare tutti i giocatori, dagli amatori a salire, e, in ultima analisi, il Paese stesso di fronte al mondo. Se l’obiezione è, sai che sorpresa, sono il più forte di tutti, in genere le primedonne non riscuotono i favori del grande pubblico. Ma ci torneremo.
Prima è necessario considerare anche la possibile diversa percezione di questo onore tra le nuove generazioni. Perché il fatto che le critiche più aspre siano arrivate da Adriano Panatta e da Nicola Pietrangeli, il capitano della “Squadra”, quella che ha vinto la Coppa Davis nel 1976, fa nascere questo dubbio. Qui però si corre il rischio di generalizzare, di nascondere “tutte le facce dietro una sola, che è quella dei sondaggi di opinione: i giovani qua, i giovani là, i giovani un gran paio di maroni” (citazione a memoria di Ligabue, 1995) e non possiamo fare molto più che interrompere l’allenamento dei ventenni con cui condividiamo la palestra per scoprire che preferirebbero giocare nel Milan (o quella che è) che nella Nazionale. Resta vero, e lo riconoscono gli stessi Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, che il calendario e le priorità sono cambiate rispetto a quei tempi. Quando c’era ancora la mezza stagione, signora mia.
Restando in tema di (bei?) tempi andati, c’è poi la scusante “non è più la Davis di una volta”, quindi a chi importa se ci va o no. Perché regga, però, non può essere immaginata, vale a dire che il tennista di turno lo deve dichiarare, “questo formato è una schifezza, rifiuto di esserne parte”. Novantadue minuti di applausi, poi succeda quel che succeda.
Regole: per molti ma non per…
Dallo Statuto FITP 2023: “Gli atleti selezionati per le rappresentative nazionali sono tenuti a rispondere alle convocazioni e a mettersi a disposizione della FITP, nonché ad onorare il ruolo rappresentativo conferito” (art. 10, c. 2). La violazione della norma prevede che siano “puniti con sanzione pecuniaria e con sanzione inibitiva fino ad un massimo di un anno” (Regolamento di Giustizia, art. 19, c. 1). In caso di sanzione definitiva, stessa punizione per il coach (c. 3).
Ammettiamo di non aver letto l’intero Statuto neanche ai tempi dell’esame da ufficiale di gara e non possiamo quindi escludere l’esistenza di un’eccezione. Il riferimento è alle parole “assolutorie” di Angelo Binaghi: “Se l’obiettivo continua ad essere, e deve continuare ad essere, quello di vincere gli Slam – il giorno in cui questo mostro che si chiama Djokovic che tra tre, quattro anni avrà circa quarant’anni e giocherà un po’ meno – bisognerà farsi trovare pronti […]. Dunque, in questi casi bisogna fermarsi.”.
Una disparità di trattamento che non può e non deve essere legittimata, non solo in quanto l’uguaglianza di fronte alle regole è un principio basilare, bensì perché rischia di minare il citato spirito di squadra e la passione per la rappresentativa azzurra, arrivando a far percepire il “giustificato” come una primadonna che impone e antepone i propri capricci ai compagni.
Tra l’altro, se il metro di giudizio che vogliono vendere è “chi potrebbe vincere Slam fa quello gli pare”, sarebbe quantomeno opportuno che venisse delegato uno bravo a fare previsioni, dal momento che Simone Bolelli, nel 2008 oggetto di pubbliche ire binaghiane per il suo “no” alla convocazione, uno Slam l’ha poi vinto. Mentre Sinner (con quelli della sua generazione) è stato invero certificato dal proclama federale al pari dei componenti della Lost Generation e degli Original Next Gen: tennisti che per vincere titoli pesanti altro non possono fare che attendere il ritiro dell’essere mitologico chiamato Big 3, pur rimasto con una sola testa.
Fraintendimenti faziosi
Anche se non dovrebbe esserci bisogno di chiarirlo, tifare per la nazionale o sentirsi onorati di vestirne i colori nulla ha a che fare con il peggior lato del nazionalismo, che invece di bearsi dell’unicità della propria nazione la ritiene superiore a tutte le altre, quel nazionalismo che ha portato alle relative dittature del secolo scorso e alla seconda guerra mondiale, quell’ideologia che ora ritrova nuova linfa anche grazie alle risposte ignoranti (al)le sfide della globalizzazione e del nuovo millennio. No, sperare che la rappresentativa del proprio Paese vinca i mondiali di pallavolo, gli ori alle Olimpiadi, la Coppa Davis, così come credere che Jannik abbia sbagliato a rifiutare la convocazione, non c’entra nulla con quanto sopra e con il Deutschland über alles urlato dagli spalti a Zverev (gran presenza di spirito da parte di Sascha nella reazione, peraltro).
Perché, parlando con un amico, una persona può scherzare sul proprio figlio, definirlo anche un po’ scemo, ma mai accetterebbe che a chiamarlo così fosse l’altro. Allo stesso modo, quando Pietrangeli parlando “in generale” ha avuto quell’uscita infelice, quel “se non sei fiero di giocare per il tuo Paese fatti fare un certificato medico fasullo” all’interno di un discorso altrimenti sensato – condivisibile o meno, siamo qui per questo –, noi possiamo spingerci nella satira dicendo che quel certificato è forse il vero simbolo dell’italianità. Ma se ce lo rinfacciassero un francese, un russo, un americano, beh, non gliele manderemmo a dire.
In conclusione, a dispetto degli infiniti episodi di becera quotidianità, non viviamo nel caos e accettare con entusiasmo la convocazione significa anche rappresentare un ideale di cooperazione alla cui altezza nessuno di noi è in grado di vivere. Per questo, pur rifiutando la dicotomia innocentisti/colpevolisti, soprattutto nella parte in cui si addossano colpe, riteniamo che Jannik abbia sbagliato. E che Volandri sbaglierebbe se lo chiamasse per la fase finale di Malaga. Poi, il 2024 è un altro anno.
ATP
Il team di Sinner si racconta: “Ognuno svolge il suo compito con estrema serietà. Il più competitivo? Jannik senza dubbi”
In un video-intervista all’ATP il team del tennista altoatesino si racconta a tutto tondo, da come svolgono il proprio lavoro al rapporto tra i membri della squadra, per finire con un ritratto di Sinner atleta ma anche persona

Il tennis, espressione massima della solitudine nel proprio palcoscenico, è ormai da molti anni descritto dalla totalità dei giocatori del circuito ATP e WTA come uno sport certamente individuale, ma nel quale il team è la colonna portante dell’intera struttura. Dal coach al super coach, dal fisioterapista al mental coach, dal preparatore atletico al manager. Tutti ingredienti fondamentali dietro le quinte – o meglio, nel famoso ‘box’ a bordo campo molto inquadrato dalle telecamere e osservato, chi più chi meno, dai giocatori in campo – che possono rendere un tennista il tennista, capace grazie alla propria forza di volontà e a tutti questi tasselli nel background di raggiungere, o meno, il successo e i propri obiettivi. La storia del tennis è colma di coach che hanno fatto la differenza: da Toni Nadal mentore di suo nipote Rafa, da Patrick Mouratoglou allenatore per un decennio di Serena Williams, per poi arrivare ai colori azzurri con Andreas Seppi e Massimo Sartori, Lorenzo Sonego e Gipo Arbino, Lorenzo Musetti e Simone Tartarini, per concludere con Jannik Sinner e…
Questo è un capitolo bello corposo da trattare: il team del n.1 italiano. Chi c’è dietro quella folta chioma rossa? Certamente i primi che vengono in mente sono Simone Vagnozzi e Darren Cahill – entrambi ex giocatori –, che per Jannik svolgono rispettivamente il ruolo di coach e supercoach. Un’intervista molto approfondita dell’ATP analizza ai raggi X la squadra del tennista altoatesino, che numerosa è dir poco. “Sono persone buone e felici; ognuno sa molto bene di cosa si deve occupare. Mi sento fortunato ad avere un team così”, le prime parole di Sinner sul proprio team, che come dirà poco dopo “è come una famiglia. Vedo più spesso loro che i miei genitori”. Si capisce sin sa subito quello che il n.7 ATP cerca tra i propri membri della squadra: competenza e affinità. Infatti, “per me ognuno è fondamentale. Quando qualcuno entra a far parte del gruppo non è importante solamente che sia uno dei migliori nel suo lavoro, ma è essenziale anche come io mi senta con questa persona. Devo essere a mio agio e sapere che posso parlare di qualunque cosa che mi passi per la testa con tutti quanti”.
Successivamente la palla passa agli allenatori di Sinner, Vagnozzi e Cahill. La collaborazione con il primo inizia a febbraio 2022, come ricorda anche il 40enne di Ascoli Piceno, mentre la più fresca entrata – a giugno 2022 – è quella dell’ex semifinalista allo US Open Darren Cahill, coach in passato di personaggi come Andre Agassi, Lleyton Hewitt, Andy Murray e Simona Halep. “Il mio ruolo è più quello di trasmettergli la mia esperienza” ci informa l’australiano, “sono stati dei primi mesi di collaborazione molto buoni e produttivi”. Si sapeva già l’attitudine di Jannik in campo, ma il tennista italiano ci tiene comunque a farlo sapere chiaro e tondo: “Sono il più competitivo, odio perdere”, e sia Vagnozzi che Cahill dicono all’unisono che “Jannik vuole vincere dappertutto, in ogni cosa che fa”.
L’ex allenatore australiano di Coppa Davis tira in ballo anche il preparatore atletico di Sinner, Umberto Ferrara, definendolo come “il più serio”. Nel tennis “il corpo deve essere il tuo tempio, di conseguenza probabilmente lui ha il lavoro più importante di tutti. A cena dice sempre a Jannik quello che sarebbe meglio mangiare e ciò che si deve evitare”. E conferma anche Umberto che, mettendo le mani avanti, informa subito che “quando lavoriamo siamo tutti seri. Quando è terminato l’allenamento, invece, si può scherzare tutti insieme”. Ma non mancano nel team Sinner momenti di svago conviviali, rigorosamente nella maggior parte dei casi con le carte da gioco. Il ‘Burraco’ è quello che va per la maggiore ed è stato Giacomo Naldi, fisioterapista dell’altoatesino, a introdurlo a tutta la squadra. “Jannik vuole giocare tutti i giorni” fa sapere Giacomo, che spiega questa ‘tradizione’ del 22enne di San Candido chiarendo che “la prima volta che abbiamo giocato insieme Jannik ha vinto il torneo a cui stava partecipando; quindi è per questo che vuole sempre giocare secondo me”.
Passando alla routine, invece, tutti i membri del team intervengono dicendo la propria, precisando che “Sinner innanzitutto svolge qualche esercizio di mobilità e prevenzione, soprattutto alcuni specifici movimenti che lo proteggono da infortuni avuti in passato, come ad esempio quelli alla caviglia”. Poi arriva il turno di Naldi prima e dopo l’allenamento. Quest’ultimo è di un’ora e mezza, in cui il campione azzurro viene seguito da Vagnozzi, Cahill e consiste in palleggi di ritmo con uno sparring partner, per finire con qualche punto. Nel pomeriggio, invece, “un’ora di tecnica in cui ci si concentra sul servizio, sulle volée, sullo slice…”, mentre la maggior parte del lavoro di Giacomo Naldi, come lui stesso afferma, avviene dopo: “Faccio qualche massaggio, qualche ulteriore esercizio di mobilità, lavoro con i suoi muscoli e cerco di far sì che il suo corpo possa recuperare al meglio”.
Come dice anche Sinner, non è un rapporto unilaterale quello tra coach e giocatore, infatti “loro mi spingono a dare il meglio di me, ma anche io li sollecito parecchio. Ogni giorno è una sfida, ed è fondamentale non solo che loro siano miei amici, ma che sappiano anche essere onesti con me”. Cahill, poi, interviene facendo sapere un aspetto molto importante della persona-tennista che è Jannik Sinner: “Non c’è molta differenza tra lo Jannik che si vede in campo e quello che si osserva al di fuori di esso. Lo si può vedere nei suoi occhi da volpe, che al momento giusto possono diventare quelli di una tigre”. Vagnozzi, invece, si sofferma sul fatto che “Sinner quando entra in campo vuole sempre migliorare, è costantemente col sorriso, quindi per un coach è più semplice svolgere il suo lavoro”. Mettendo sul piatto della bilancia i risultati di quest’anno “Jannik è soddisfatto, ha più fiducia dopo la semifinale a Wimbledon e il titolo a Toronto. Questi erano suoi obiettivi”.
Un team solido, unito, familiare, dove ognuno ha un preciso compito e allo stesso tempo è un pezzo fondamentale del puzzle finale. Jannik ha solamente ventidue anni, ha già conquistato vette importanti del ranking, ha vinto tornei 250, 500 e 1000, è stato semifinalista Slam e, cosa più importante, è seguito da persone che credono nei suoi mezzi e lo stimolano al meglio. Dopo la parentesi US Open seguita da quella – mancata – di Coppa Davis, per Sinner ora è il momento di tuffarsi nell’ultimo periodo della stagione, con gli ultimi due tornei 500, due tornei 1000 e le Finals di fine anno dove non è ancora qualificato ufficialmente, ma gli mancano pochissimi punti per raggiungere la quota sufficiente per parteciparvi. Sappiamo che dopo New York Jannik si è dedicato al puro allenamento in vista dei prossimi appuntamenti. Il team ora lo conosciamo, sappiamo come lavorano, quindi non ci resta che metterci comodi e osservare le gesta del nostro n.1. Cinture allacciate, direzione Pechino!
ATP
Il numero uno indiano, Sumit Nagal: “Ho solo 900 euro nel mio conto bancario”
Il campione del challenger di Roma Sumit Nagal commenta in maniera critica il prize money dei tornei minori

Sicuramente una stagione positiva a livello challenger quella che il numero uno indiano Sumit Nagal sta vivendo. Il 26enne ha sicuramente messo in mostra il suo miglior tennis sui campi di Roma e Tampere (in cui ha portato a casa il titolo) ed è reduce dalla finale persa contro Kopriva a Tulln, in Austria. Il conto bancario del tennista non coincide però, suo malgrado, con il livello del suo tennis. Nagal ha espresso il suo parere in maniera critica all’agenzia di stampa Press Trust of India: “Ho solo 900 euro nel mio conto bancario. Non sto vivendo un’ottima vita” . Ne aveva parlato anche Djokovic in un’intervista, dichiarandosi davvero fortunato.
Il montepremi dei tornei Challenger e ITF non è abbastanza alto per poter permettere ai giocatori di vivere di tennis. L’indiano è già supportato da alcuni sponsor tra cui Yonex e Asics che gli forniscono racchette e scarpe, ed ha avuto un ulteriore aiuto per poter sostenere le spese di iscrizione e soggiorno ai tornei: “Guardando il mio bilancio economico, oggi ho quanto avevo all’inizio dell’anno. 900 euro. Ho ricevuto un piccolo aiuto. Prashant Sutar mi sta aiutando con la fondazione tennis MAHA e sto avendo anche un salario mensile dalla Indian Oil Corporation”.
Il tennista è amareggiato dalla mancanza di sponsor importanti dopo il suo infortunio: “Sento come se nessuno credesse più in me da quando il mio ranking è sceso a causa dell’infortunio. Nessuno pensa che io possa tornare a quei livelli. Onestamente, non so cosa fare, ci ho rinunciato”.