Kenin e Muguruza: sorprese, rinascite e incognite dell'ultimo Slam

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Kenin e Muguruza: sorprese, rinascite e incognite dell’ultimo Slam

Doveva essere l’Australian Open di Williams, Osaka o Barty e invece la finale di Melbourne ha proposto due protagoniste inattese

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Garbiñe Muguruza e Sofia Kenin - Australian Open 2020
 

E così anche il primo Slam del 2020 ha confermato la tendenza degli ultimi Major: ancora una volta a prevalere è stata una giocatrice giovane. Grazie al successo a Melbourne, ad appena 21 anni Sofia Kenin si aggiunge al gruppo di nuove vincitrici: Naomi Osaka, Ashleigh Barty e Bianca Andreescu. Dallo US Open 2018 solo Wimbledon 2019 (con Simona Halep), è sfuggito alla giovane generazione, che può vantare cinque vittorie negli ultimi sei Slam. In ordine cronologico: Osaka, Osaka, Barty, Halep, Andreescu, Kenin.

Non ho lo spazio per affrontare in un solo articolo tutti gli spunti che l’Australian Open ha proposto. Questa volta mi concentro sulle due finaliste, la prossima settimana allargherò lo sguardo verso altri temi offerti dal torneo.

1. La rinascita di Garbiñe Muguruza
Ecco cosa avevo scritto a proposito di Muguruza nell’articolo uscito lo scorso 7 gennaio (WTA, chi migliorerà nel 2020?): “Nel luglio 2019 ha lasciato dopo quattro anni lo storico coach Sam Sumyk ed è tornata con Conchita Martinez, che era al suo angolo in occasione del successo a Wimbledon 2017. Credo che Martinez avrà soprattutto due obiettivi: sistemare l’esecuzione del dritto, che con il passare del tempo si è involuto, e aiutare Garbiñe a recuperare fiducia in se stessa. Se raggiungerà questi due traguardi, sono ancora profondamente, testardamente, convinto che Muguruza possa tornare ai piani alti del ranking”.

Per me non è quindi una sorpresa ritrovare Garbiñe protagonista in un grande torneo. Semmai era il contrario: non riuscivo ad accettare come una giocatrice che aveva mostrato di cosa fosse capace nel triennio 2015-2017 (tre finali Slam, due vinte) potesse sembrare definitivamente persa a soli 26 anni. Dato che non aveva dovuto affrontare seri infortuni, prima o poi mi sembrava quasi inevitabile che tornasse a far sentire la sua presenza. A Melbourne dopo molti anni affrontava uno Slam senza essere testa di serie (non accadeva dal Roland Garros 2014), ma si è presa ugualmente uno spazio significativo.

Eppure le cose non erano cominciate bene: al primo turno Muguruza aveva “pescato” Shelby Rogers. Una qualificata, ma di quelle da non sottovalutare. Penso fossero due le qualificate più insidiose, che sarebbe stato meglio evitare: Greet Minnen e, appunto, Shelby Rogers. E infatti contro Rogers (ex Top 50, quarti di finale al Roland Garros 2016, poi a lungo ferma per problemi fisici) Garbiñe ha avuto un avvio choc: addirittura 0-6, poi però rimediato al terzo set (0-6, 6-1, 6-0).

Anche al secondo turno Garbiñe ha avuto bisogno di tre set per eliminare Tomljanovic. Ma quando sono arrivate le avversarie più qualificate ha invece viaggiato spedita: 6-1 6-2 alla testa di serie numero 5 Svitolina e 6-3 6-3 alla numero 9 Bertens. Due Top 10 superate nei primi quattro turni, così come due set le sono bastati per sconfiggere la (relativa) sorpresa Pavlyuchenkova (tds 30) nei quarti di finale.

Match dopo match abbiamo finalmente rivisto una Muguruza di alto livello, vicina a quella capace di vincere gli Slam: la giocatrice che spinge la palla con continuità, che ama condurre lo scambio e che ama avanzare, sottrarre spazio all’avversaria per concludere il punto soffocandola attraverso la contrazione dei tempi di gioco.

Prima di analizzare gli impegni contro Halep e Kenin, occorre chiarire in estrema sintesi alcuni aspetti del suo tennis; almeno per come li interpreto io. Garbiñe è potente, ma la sua palla non è di sicuro la più veloce del circuito: altre giocatrici (per esempio Keys, Ostapenko, Kvitova, Osaka) vantano velocità medie superiori nella conduzione del palleggio. Muguruza non possiede nemmeno quella speciale abilità tecnica che consente ad alcune giocatrici di “allargare” improvvisamente il campo durante lo scambio da fondo, eseguendo parabole con angoli particolarmente stretti, che aiutano a destabilizzare le difese avversarie.

Per chiudere il punto, nel gioco di Muguruza è invece fondamentale la naturale attitudine verso l’avanzamento. E fa niente se non è la miglior volleatrice del circuito: la capacità di pressare l’avversaria mettendo sempre più i piedi nel campo durante lo scambio, e la determinazione con cui aggredisce le palle meno profonde (al rimbalzo o di volo), la mettono spesso nella condizione di governare la partita, diventando la prima artefice dell’esito dei match.

Nelle passate stagioni di crisi abbiamo però anche imparato a conoscere i suoi punti deboli. Il primo è tecnico: l’insicurezza nel dritto, che aleggia latente sui suoi match, e si materializza quando Garbiñe perde sicurezza: l’indecisione si risolve in esecuzioni rattrappite, causate da un timing approssimativo che non le permette di imprimere la giusta energia alla palla.

Il secondo punto debole è tattico-mentale: in alcuni frangenti subentra il timore di sbagliare, e allora ecco la tendenza ad aspettare con passività le scelte dell’avversaria, confidando nelle proprie doti difensive. Doti difensive che sono sorprendenti per una giocatrice della sua stazza, ma non così straordinarie da poter diventare il cardine delle vittorie nei grandi match.

a pagina 2: Muguruza, semifinale e finale a Melbourne

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