Personaggi
I re del Roland Garros: buon compleanno Orso Borg
La leggenda svedese compie 64 anni: riviviamo la sua straordinaria carriera al Roland Garros, battuto solo da Adriano Panatta (due volte) in otto partecipazioni

Ci sono atleti che per maestria tecnica, successi, personalità e carisma, rappresentano delle pietre miliari dello sport. Il tennista svedese Bjorn Rune Borg, del quale ricorre oggi il sessantaquattresimo compleanno, appartiene a questa sparuta schiera di eletti. Ad avviso di chi scrive Borg è uno dei tre giocatori più importanti di tutti i tempi; gli altri sono “Big” Bill Tilden e Jack Kramer. Ognuno di loro impresse al tennis una spinta propulsiva in avanti di enorme importanza al punto che si può dire che dopo il loro avvento nulla fu più come prima, a parte forse le fragole con panna a Wimbledon.
Tilden fu l’uomo che trasformò il gioco del tennis in uno sport, Kramer lo industrializzò e Borg lo proiettò nell’era moderna sia dentro sia fuori dal campo.
Per quanto riguarda la dimensione sportiva il suo modo di colpire la palla con rotazioni estreme sia con il diritto sia con il rovescio bimane (o più esattamente a una mano e tre quarti) e la cura minuziosa dedicata alla preparazione atletica costituiscono ancora oggi e probabilmente costituiranno ancora a lungo uno standard di riferimento per la maggior parte dei professionisti; se estendiamo l’analisi del suo impatto al di là del rettangolo di gioco dobbiamo infine prendere atto che se il tennis da oltre 40 anni non è più considerato un hobby per le élite bensì uno spettacolo globale, ciò è principalmente dovuto alla sua personalità fortemente carismatica.
Si può discutere se le novità introdotte da Borg siano state un bene o un male per il tennis; ma è indiscutibile il fatto che siano riconducibili a lui. Personalità carismatica e tecnica innovative non sarebbero però bastate a proiettare Borg nel mito se ad esse non si fossero aggiunte le vittorie; anche sotto questo profilo Borg fu impareggiabile. In un arco temporale che va dal debutto nel circuito professionistico avvenuto nel 1973 e il suo ritiro virtuale del 1981 (quello ufficiale avvenne due anni dopo ma nel 1982 e nel 1983 disputò soltanto il torneo di Montecarlo) Borg conquistò 66 tornei in singolare tra i quali spiccano per importanza 6 Roland Garros e 5 Wimbledon.
A livello di squadra Borg debuttò in Coppa Davis nell’aprile del 1972 contro la Nuova Zelanda a 15 anni e 10 mesi di età e fu poi determinante nella conquista della prima coppa della storia della Svezia, avvenuta nel 1975. È più semplice fare l’elenco di ciò che manca nel suo palmares: lo US Open, torneo in cui giunse in finale quattro volte e – in subordine – l’Australian Open, che però disputò solo nel 1974.
Tornando alle 11 vittorie conquistate nei tornei dello Slam è difficile dire se siano più significativi i successi parigini o quelli londinesi; molti propendono per la cinquina sull’erba dal momento che per ottenerla Borg dovette adattare il suo gioco ad una superficie che – a differenza della terra rossa – non gli era congeniale per abilità innata. Ma dal momento che in una realtà ucronica non devastata dal coronavirus oggi a Parigi, in coincidenza del suo compleanno, si sarebbe disputata la finale del torneo singolare femminile, noi concentreremo la nostra attenzione sul Roland Garros.
Borg e Roland Garros costituiscono un binomio indissolubile al pari di Smith & Wesson. Abbiamo riassunto nella seguente tabella le sue performance in terra di Francia:
1973 | 1974 | 1975 | 1976 | 1977 | 1978 | 1979 | 1980 | 1981 | V-S |
Ottavi | V | V | Quarti | ND | V | V | V | V | 49-2 |
Solo un uomo è riuscito a vincere un numero maggiore di singolari a Parigi, il francese Max Decugis (il marziano atterrato in Spagna per un’avaria alla navicella spaziale non fa quindi testo). Non ce ne vogliano i francesi, ma crediamo che le otto vittorie del loro connazionale avvenute tra il 1903 e il 1914 abbiano un valore assoluto inferiore alle sei dello svedese. Soltanto Adriano Panatta è riuscito a batterlo in questo torneo, nel ’73 e nel ‘76. Per curiosa coincidenza sia nel 1973 sia nel 1976 lo sconfisse dopo averlo battuto nei due incontri precedenti.
La vittoria più impegnativa fu quella del 1974; Borg fu costretto per tre volte a giocare il quinto set, contro Van Dillen (che nel primo set degli ottavi gli rifilò un clamoroso 6-0), Ramirez e Orantes contro il quale in finale perse i primi due set per poi lasciargli due game nei restanti tre. Nell’edizione del ’75 smarrì un solo set contro Adriano Panatta in semifinale. Nel 1977, alla gloria di una terza possibile vittoria consecutiva, preferì i dollari americani e prese parte al World Team Tennis, un campionato a squadre che ancora oggi si disputa negli Stati Uniti.
La sua assenza diede così modo a Guillermo Vilas di fare strame dei suoi avversari (6-0 6-3 6-0 in finale a Gottfried). Vilas a Parigi ballò una sola estate. Nel 1978 Borg vi tornò e vinse la coppa dei moschettieri senza perdere neppure un set e lasciando agli avversari 32 game in 7 match. Nella semifinale dell’edizione del ’78 batté Corrado Barazzutti con il punteggio di 6-0 6-1 6-0; narra la leggenda che Barazzutti al termine del match al momento di stringergli la mano gli disse: “Peccato per quel game”. Il campione in carica in finale fece poco meglio del nostro connazionale: 6-1 6-1 6-3 lo score a favore di Borg.
Se qualche lettore desidera farsi un’idea più compiuta di ciò che significava affrontare Borg su terra rossa, gli suggeriamo di dedicare 2 minuti e 25 secondi del suo tempo alla visione delle immagini relative a uno scambio di 86 colpi avvenuto nel corso della finale citata. Non vi diciamo chi lo ha vinto per non rovinarvi la sorpresa.
Nel 1979 Borg non giocò al livello del ’78 ma non ebbe comunque mai bisogno del set decisivo per portare a casa la quarta coppa. Complessivamente zero set e trentotto game persi nel 1980 e quinto successo. Il sesto giunse l’anno successivo. Per Borg fu una passeggiata sino alla finale dove contro Ivan Lendl perdette gli unici due set dell’intero torneo. Quello fu l’ultimo incontro che disputò a Parigi. Nello stesso anno seguiranno le vittorie a Stoccarda e Ginevra. Furono le ultime in assoluto.
Gli spunti per scrivere ancora a lungo di Borg non mancano; dal suo sodalizio con il coach Lennart Bergelin alla tensione delle corde di budello tirate a 35 kg; dal sobrio matrimonio con Loredana Bertè, al tragicomico ritorno alle competizioni nel ’91 a Montecarlo con Donnay in legno e guru al fianco. Lasciamo ad altri il compito di farlo. L’autore di questo articolo si congeda augurando buon compleanno all’idolo della sua adolescenza a fianco del quale si inginocchiò metaforicamente un sabato pomeriggio di luglio del 1980.
Coppa Davis
Coppa Davis, Jannik Sinner “caso Nazionale”: per me è colpevole
Immagine, uguaglianza e spirito di squadra: perché pensiamo che Jannik Sinner abbia sbagliato a rifiutare la convocazione in Coppa Davis

“Sfortunatamente non ho avuto abbastanza tempo per recuperare dopo i tornei in America e purtroppo non potrò far parte della squadra a Bologna. È sempre un onore giocare per il nostro paese e sono convinto di tornare in nazionale al più presto. Un grosso in bocca al lupo ai ragazzi, ci vediamo” recitava il tweet di Jannik Sinner.
LEGGI ANCHE: Jannik Sinner “caso Nazionale”: per me è innocente
Immagine pubblica, modelli e confronti
Nonostante la chiusura con un cuore e la bandiera italiana e il durissimo match allo US Open perso con Zverev dopo 4 ore e 41 minuti, a molti la decisione non è affatto piaciuta, una motivazione giudicata insufficiente, una scusa. Tra le critiche, ha ventidue anni, c’era più di una settimana per recuperare, e allora Djokovic, che di anni ne ha trentasei e a New York ha disputato tre match in più, eppure ci sarà? Il confronto a prima vista impietoso in realtà dimentica che Novak gioca un circuito a parte in cui si presenta quando gli fa comodo (come le regole gli permettono). Nole era ancora nella fase di riposo post-Wimbledon quando Jannik vinceva Toronto, lo slam americano è stato il suo decimo torneo dell’anno (diciassettesimo per Sinner) e avrebbe poi saltato l’intera tournée asiatica.
Nonostante tutti i distinguo elencati, pensiamo (questa e ogni altra prima persona plurale da intendersi come opinione di chi scrive) che Jannik abbia sbagliato a chiamarsi fuori. Non perché l’Italia abbia rischiato l’eliminazione (quello che è successo dopo il rifiuto qui non ci interessa) e nemmeno, a prescindere da quanto detto, dalla presenza di Djokovic. Questo secondo motivo ha invero una sua validità, poiché la percezione spesso conta quanto e più di una realtà articolata. E la percezione di molti appassionati e addetti ai lavori si è risolta in un pollice verso. In alcuni casi superando il limite (sempre a nostro avviso), con frasi come quelle apparse su Sport Week della Gazzetta: “E se Jannik Sinner, il Peccatore, chiedesse scusa del suo peccato? Non all’Italia o agli italiani ma a se stesso”.
Parliamo della programmazione sportiva di un giovane atleta, non di rappresentanti delle istituzioni che calpestano la Costituzione. Perché finché si scherza sul cognome di Jannik è un conto, ma usarlo impropriamente (Sinn in tedesco significa senso, non peccato) per montare quella che sa di stantia retorica cattolica, anche no. Al contempo, troviamo ragionevole il concetto di fondo.
Tornando alla percezione, all’immagine pubblica – oltre all’innegabile fatto che un top player è anche un modello per giovani e giovanissimi –, non possiamo non rilevarne l’importanza per un professionista, anche in forza della correlazione tra apprezzamento dei tifosi e sponsor, tanto che valutazioni commerciali possono mettersi di traverso con quanto hanno in mente coach, fisio e preparatori atletici. Citiamo solo i recenti casi di Matteo Berrettini, ancora non in condizione al Boss Open di Stoccarda, e di Emma Raducanu, che ha saltato la BJK Cup (se non rimandato gli interventi chirurgici) in favore del Porsche Tennis Grand Prix di… Stoccarda. A proposito di Berrettini, l’assenza bolognese di Jannik è stata ancor più rumorosa per la presenza in panchina di Matteo: “Il suo è stato un comportamento da leader” ha commentato il presidente della FITP Angelo Binaghi.
Uno per tutti, tennis per uno
A favore della scelta di Sinner, l’obiezione per cui il tennis è uno sport individuale: il giocatore rappresenta sé stesso e decide il meglio per la propria carriera. Forse a un calciatore del Napoli non importa della propria carriera solo perché durante quei novanta o quaranta minuti passa (o non passa) la palla a un compagno libero? Calciatori, cestisti, pallavolisti, tutti possiedono verosimilmente il cosiddetto “spirito di squadra”, caratterizzato dal senso di appartenenza, dalla condivisione degli obiettivi, dalla cooperazione. Però, la squadra che si nutre di questo spirito è l’Inter, è la Virtus, è il Modena Volley, non la nazionale. Dopotutto, se il pallavolista gioca lo stesso sport che si tratti di Serie A o Mondiali, lo stesso vale per il tennista in un torneo individuale o in un incontro a squadre: Musetti era in campo da solo allo US Open ed era in campo da solo a Bologna in Davis. E, probabilmente, rappresenta più l’Italia uno dei nostri tennisti in giro per il Tour che un club del pallone in Coppa dei Campioni. Non si chiama più così? Sta’ un paio d’anni senza seguire il campionato e ritrovi un altro mondo.
Al passo con i tempi
Senza dunque grosse differenze a seconda che in campo ci siano uno o più atleti, la convocazione dovrebbe in ogni caso essere percepita come un onore: scelto per rappresentare tutti i giocatori, dagli amatori a salire, e, in ultima analisi, il Paese stesso di fronte al mondo. Se l’obiezione è, sai che sorpresa, sono il più forte di tutti, in genere le primedonne non riscuotono i favori del grande pubblico. Ma ci torneremo.
Prima è necessario considerare anche la possibile diversa percezione di questo onore tra le nuove generazioni. Perché il fatto che le critiche più aspre siano arrivate da Adriano Panatta e da Nicola Pietrangeli, il capitano della “Squadra”, quella che ha vinto la Coppa Davis nel 1976, fa nascere questo dubbio. Qui però si corre il rischio di generalizzare, di nascondere “tutte le facce dietro una sola, che è quella dei sondaggi di opinione: i giovani qua, i giovani là, i giovani un gran paio di maroni” (citazione a memoria di Ligabue, 1995) e non possiamo fare molto più che interrompere l’allenamento dei ventenni con cui condividiamo la palestra per scoprire che preferirebbero giocare nel Milan (o quella che è) che nella Nazionale. Resta vero, e lo riconoscono gli stessi Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, che il calendario e le priorità sono cambiate rispetto a quei tempi. Quando c’era ancora la mezza stagione, signora mia.
Restando in tema di (bei?) tempi andati, c’è poi la scusante “non è più la Davis di una volta”, quindi a chi importa se ci va o no. Perché regga, però, non può essere immaginata, vale a dire che il tennista di turno lo deve dichiarare, “questo formato è una schifezza, rifiuto di esserne parte”. Novantadue minuti di applausi, poi succeda quel che succeda.
Regole: per molti ma non per…
Dallo Statuto FITP 2023: “Gli atleti selezionati per le rappresentative nazionali sono tenuti a rispondere alle convocazioni e a mettersi a disposizione della FITP, nonché ad onorare il ruolo rappresentativo conferito” (art. 10, c. 2). La violazione della norma prevede che siano “puniti con sanzione pecuniaria e con sanzione inibitiva fino ad un massimo di un anno” (Regolamento di Giustizia, art. 19, c. 1). In caso di sanzione definitiva, stessa punizione per il coach (c. 3).
Ammettiamo di non aver letto l’intero Statuto neanche ai tempi dell’esame da ufficiale di gara e non possiamo quindi escludere l’esistenza di un’eccezione. Il riferimento è alle parole “assolutorie” di Angelo Binaghi: “Se l’obiettivo continua ad essere, e deve continuare ad essere, quello di vincere gli Slam – il giorno in cui questo mostro che si chiama Djokovic che tra tre, quattro anni avrà circa quarant’anni e giocherà un po’ meno – bisognerà farsi trovare pronti […]. Dunque, in questi casi bisogna fermarsi.”.
Una disparità di trattamento che non può e non deve essere legittimata, non solo in quanto l’uguaglianza di fronte alle regole è un principio basilare, bensì perché rischia di minare il citato spirito di squadra e la passione per la rappresentativa azzurra, arrivando a far percepire il “giustificato” come una primadonna che impone e antepone i propri capricci ai compagni.
Tra l’altro, se il metro di giudizio che vogliono vendere è “chi potrebbe vincere Slam fa quello gli pare”, sarebbe quantomeno opportuno che venisse delegato uno bravo a fare previsioni, dal momento che Simone Bolelli, nel 2008 oggetto di pubbliche ire binaghiane per il suo “no” alla convocazione, uno Slam l’ha poi vinto. Mentre Sinner (con quelli della sua generazione) è stato invero certificato dal proclama federale al pari dei componenti della Lost Generation e degli Original Next Gen: tennisti che per vincere titoli pesanti altro non possono fare che attendere il ritiro dell’essere mitologico chiamato Big 3, pur rimasto con una sola testa.
Fraintendimenti faziosi
Anche se non dovrebbe esserci bisogno di chiarirlo, tifare per la nazionale o sentirsi onorati di vestirne i colori nulla ha a che fare con il peggior lato del nazionalismo, che invece di bearsi dell’unicità della propria nazione la ritiene superiore a tutte le altre, quel nazionalismo che ha portato alle relative dittature del secolo scorso e alla seconda guerra mondiale, quell’ideologia che ora ritrova nuova linfa anche grazie alle risposte ignoranti (al)le sfide della globalizzazione e del nuovo millennio. No, sperare che la rappresentativa del proprio Paese vinca i mondiali di pallavolo, gli ori alle Olimpiadi, la Coppa Davis, così come credere che Jannik abbia sbagliato a rifiutare la convocazione, non c’entra nulla con quanto sopra e con il Deutschland über alles urlato dagli spalti a Zverev (gran presenza di spirito da parte di Sascha nella reazione, peraltro).
Perché, parlando con un amico, una persona può scherzare sul proprio figlio, definirlo anche un po’ scemo, ma mai accetterebbe che a chiamarlo così fosse l’altro. Allo stesso modo, quando Pietrangeli parlando “in generale” ha avuto quell’uscita infelice, quel “se non sei fiero di giocare per il tuo Paese fatti fare un certificato medico fasullo” all’interno di un discorso altrimenti sensato – condivisibile o meno, siamo qui per questo –, noi possiamo spingerci nella satira dicendo che quel certificato è forse il vero simbolo dell’italianità. Ma se ce lo rinfacciassero un francese, un russo, un americano, beh, non gliele manderemmo a dire.
In conclusione, a dispetto degli infiniti episodi di becera quotidianità, non viviamo nel caos e accettare con entusiasmo la convocazione significa anche rappresentare un ideale di cooperazione alla cui altezza nessuno di noi è in grado di vivere. Per questo, pur rifiutando la dicotomia innocentisti/colpevolisti, soprattutto nella parte in cui si addossano colpe, riteniamo che Jannik abbia sbagliato. E che Volandri sbaglierebbe se lo chiamasse per la fase finale di Malaga. Poi, il 2024 è un altro anno.
ATP
Il team di Sinner si racconta: “Ognuno svolge il suo compito con estrema serietà. Il più competitivo? Jannik senza dubbi”
In un video-intervista all’ATP il team del tennista altoatesino si racconta a tutto tondo, da come svolgono il proprio lavoro al rapporto tra i membri della squadra, per finire con un ritratto di Sinner atleta ma anche persona

Il tennis, espressione massima della solitudine nel proprio palcoscenico, è ormai da molti anni descritto dalla totalità dei giocatori del circuito ATP e WTA come uno sport certamente individuale, ma nel quale il team è la colonna portante dell’intera struttura. Dal coach al super coach, dal fisioterapista al mental coach, dal preparatore atletico al manager. Tutti ingredienti fondamentali dietro le quinte – o meglio, nel famoso ‘box’ a bordo campo molto inquadrato dalle telecamere e osservato, chi più chi meno, dai giocatori in campo – che possono rendere un tennista il tennista, capace grazie alla propria forza di volontà e a tutti questi tasselli nel background di raggiungere, o meno, il successo e i propri obiettivi. La storia del tennis è colma di coach che hanno fatto la differenza: da Toni Nadal mentore di suo nipote Rafa, da Patrick Mouratoglou allenatore per un decennio di Serena Williams, per poi arrivare ai colori azzurri con Andreas Seppi e Massimo Sartori, Lorenzo Sonego e Gipo Arbino, Lorenzo Musetti e Simone Tartarini, per concludere con Jannik Sinner e…
Questo è un capitolo bello corposo da trattare: il team del n.1 italiano. Chi c’è dietro quella folta chioma rossa? Certamente i primi che vengono in mente sono Simone Vagnozzi e Darren Cahill – entrambi ex giocatori –, che per Jannik svolgono rispettivamente il ruolo di coach e supercoach. Un’intervista molto approfondita dell’ATP analizza ai raggi X la squadra del tennista altoatesino, che numerosa è dir poco. “Sono persone buone e felici; ognuno sa molto bene di cosa si deve occupare. Mi sento fortunato ad avere un team così”, le prime parole di Sinner sul proprio team, che come dirà poco dopo “è come una famiglia. Vedo più spesso loro che i miei genitori”. Si capisce sin sa subito quello che il n.7 ATP cerca tra i propri membri della squadra: competenza e affinità. Infatti, “per me ognuno è fondamentale. Quando qualcuno entra a far parte del gruppo non è importante solamente che sia uno dei migliori nel suo lavoro, ma è essenziale anche come io mi senta con questa persona. Devo essere a mio agio e sapere che posso parlare di qualunque cosa che mi passi per la testa con tutti quanti”.
Successivamente la palla passa agli allenatori di Sinner, Vagnozzi e Cahill. La collaborazione con il primo inizia a febbraio 2022, come ricorda anche il 40enne di Ascoli Piceno, mentre la più fresca entrata – a giugno 2022 – è quella dell’ex semifinalista allo US Open Darren Cahill, coach in passato di personaggi come Andre Agassi, Lleyton Hewitt, Andy Murray e Simona Halep. “Il mio ruolo è più quello di trasmettergli la mia esperienza” ci informa l’australiano, “sono stati dei primi mesi di collaborazione molto buoni e produttivi”. Si sapeva già l’attitudine di Jannik in campo, ma il tennista italiano ci tiene comunque a farlo sapere chiaro e tondo: “Sono il più competitivo, odio perdere”, e sia Vagnozzi che Cahill dicono all’unisono che “Jannik vuole vincere dappertutto, in ogni cosa che fa”.
L’ex allenatore australiano di Coppa Davis tira in ballo anche il preparatore atletico di Sinner, Umberto Ferrara, definendolo come “il più serio”. Nel tennis “il corpo deve essere il tuo tempio, di conseguenza probabilmente lui ha il lavoro più importante di tutti. A cena dice sempre a Jannik quello che sarebbe meglio mangiare e ciò che si deve evitare”. E conferma anche Umberto che, mettendo le mani avanti, informa subito che “quando lavoriamo siamo tutti seri. Quando è terminato l’allenamento, invece, si può scherzare tutti insieme”. Ma non mancano nel team Sinner momenti di svago conviviali, rigorosamente nella maggior parte dei casi con le carte da gioco. Il ‘Burraco’ è quello che va per la maggiore ed è stato Giacomo Naldi, fisioterapista dell’altoatesino, a introdurlo a tutta la squadra. “Jannik vuole giocare tutti i giorni” fa sapere Giacomo, che spiega questa ‘tradizione’ del 22enne di San Candido chiarendo che “la prima volta che abbiamo giocato insieme Jannik ha vinto il torneo a cui stava partecipando; quindi è per questo che vuole sempre giocare secondo me”.
Passando alla routine, invece, tutti i membri del team intervengono dicendo la propria, precisando che “Sinner innanzitutto svolge qualche esercizio di mobilità e prevenzione, soprattutto alcuni specifici movimenti che lo proteggono da infortuni avuti in passato, come ad esempio quelli alla caviglia”. Poi arriva il turno di Naldi prima e dopo l’allenamento. Quest’ultimo è di un’ora e mezza, in cui il campione azzurro viene seguito da Vagnozzi, Cahill e consiste in palleggi di ritmo con uno sparring partner, per finire con qualche punto. Nel pomeriggio, invece, “un’ora di tecnica in cui ci si concentra sul servizio, sulle volée, sullo slice…”, mentre la maggior parte del lavoro di Giacomo Naldi, come lui stesso afferma, avviene dopo: “Faccio qualche massaggio, qualche ulteriore esercizio di mobilità, lavoro con i suoi muscoli e cerco di far sì che il suo corpo possa recuperare al meglio”.
Come dice anche Sinner, non è un rapporto unilaterale quello tra coach e giocatore, infatti “loro mi spingono a dare il meglio di me, ma anche io li sollecito parecchio. Ogni giorno è una sfida, ed è fondamentale non solo che loro siano miei amici, ma che sappiano anche essere onesti con me”. Cahill, poi, interviene facendo sapere un aspetto molto importante della persona-tennista che è Jannik Sinner: “Non c’è molta differenza tra lo Jannik che si vede in campo e quello che si osserva al di fuori di esso. Lo si può vedere nei suoi occhi da volpe, che al momento giusto possono diventare quelli di una tigre”. Vagnozzi, invece, si sofferma sul fatto che “Sinner quando entra in campo vuole sempre migliorare, è costantemente col sorriso, quindi per un coach è più semplice svolgere il suo lavoro”. Mettendo sul piatto della bilancia i risultati di quest’anno “Jannik è soddisfatto, ha più fiducia dopo la semifinale a Wimbledon e il titolo a Toronto. Questi erano suoi obiettivi”.
Un team solido, unito, familiare, dove ognuno ha un preciso compito e allo stesso tempo è un pezzo fondamentale del puzzle finale. Jannik ha solamente ventidue anni, ha già conquistato vette importanti del ranking, ha vinto tornei 250, 500 e 1000, è stato semifinalista Slam e, cosa più importante, è seguito da persone che credono nei suoi mezzi e lo stimolano al meglio. Dopo la parentesi US Open seguita da quella – mancata – di Coppa Davis, per Sinner ora è il momento di tuffarsi nell’ultimo periodo della stagione, con gli ultimi due tornei 500, due tornei 1000 e le Finals di fine anno dove non è ancora qualificato ufficialmente, ma gli mancano pochissimi punti per raggiungere la quota sufficiente per parteciparvi. Sappiamo che dopo New York Jannik si è dedicato al puro allenamento in vista dei prossimi appuntamenti. Il team ora lo conosciamo, sappiamo come lavorano, quindi non ci resta che metterci comodi e osservare le gesta del nostro n.1. Cinture allacciate, direzione Pechino!
ATP
Il numero uno indiano, Sumit Nagal: “Ho solo 900 euro nel mio conto bancario”
Il campione del challenger di Roma Sumit Nagal commenta in maniera critica il prize money dei tornei minori

Sicuramente una stagione positiva a livello challenger quella che il numero uno indiano Sumit Nagal sta vivendo. Il 26enne ha sicuramente messo in mostra il suo miglior tennis sui campi di Roma e Tampere (in cui ha portato a casa il titolo) ed è reduce dalla finale persa contro Kopriva a Tulln, in Austria. Il conto bancario del tennista non coincide però, suo malgrado, con il livello del suo tennis. Nagal ha espresso il suo parere in maniera critica all’agenzia di stampa Press Trust of India: “Ho solo 900 euro nel mio conto bancario. Non sto vivendo un’ottima vita” . Ne aveva parlato anche Djokovic in un’intervista, dichiarandosi davvero fortunato.
Il montepremi dei tornei Challenger e ITF non è abbastanza alto per poter permettere ai giocatori di vivere di tennis. L’indiano è già supportato da alcuni sponsor tra cui Yonex e Asics che gli forniscono racchette e scarpe, ed ha avuto un ulteriore aiuto per poter sostenere le spese di iscrizione e soggiorno ai tornei: “Guardando il mio bilancio economico, oggi ho quanto avevo all’inizio dell’anno. 900 euro. Ho ricevuto un piccolo aiuto. Prashant Sutar mi sta aiutando con la fondazione tennis MAHA e sto avendo anche un salario mensile dalla Indian Oil Corporation”.
Il tennista è amareggiato dalla mancanza di sponsor importanti dopo il suo infortunio: “Sento come se nessuno credesse più in me da quando il mio ranking è sceso a causa dell’infortunio. Nessuno pensa che io possa tornare a quei livelli. Onestamente, non so cosa fare, ci ho rinunciato”.