Il dominio è finito o il meglio deve ancora venire? Processo a Novak Djokovic

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Il dominio è finito o il meglio deve ancora venire? Processo a Novak Djokovic

La sconfitta al II turno di Wimbledon. Quella, con tanto di lacrime, nel match di esordio alle Olimpiadi. L’infortunio al polso che lo costringe a saltare Cincinnati. L’era di Djokovic sta volgendo al termine o il serbo sta solo rifiatando? Piccolo processo (estivo) a Novak Djokovic

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Indubbiamente un’estate da dimenticare quella di Novak Djokovic. Dopo la vittoria al Roland Garros a fine primavera, la sconfitta al secondo turno di Wimbledon e quella al primo turno del torneo olimpico di singolare, dichiaratamente uno dei suoi grandi obiettivi stagionali, stanno facendo discutere appassionati ed addetti ai lavori sul fatto che siano o meno i segnali che il suo dominio sul tennis mondiale stia giungendo alla conclusione.

Nonostante tra le due inopinate sconfitte sia riuscito ad inanellare la sua 30esima vittoria in un Masters 1000, a Toronto, anche nel torneo canadese il suo gioco non aveva convinto granché fino alla semifinale. Ed è stata questa effettivamente un po’ una costante del Djokovic 2016, che non ha mostrato in campo la stessa supremazia di cui era stato capace lo scorso anno. Ha vinto comunque molto, anzi moltissimo, ma è accaduto spesso che ci sia riuscito per la sua capacità di alzare il livello nei momenti topici del match, mentre la velocità di crociera è stata indubbiamente inferiore a quella a cui ci aveva abituato nel 2015.

Ci si aggiunga un accentuato nervosismo, in campo, durante un po’ tutta la stagione, qualche problemino fisico – dalla congiuntivite agli attuali guai al polso sinistro – ed ecco che chi non ama particolarmente Novak Djokovic o semplicemente spera in un ricambio al vertice per il gusto della novità, ha diversi argomenti per sostenere la tesi che il 29enne atleta di Belgrado abbia iniziato la sua parabola discendente.

Dall’altro canto, gli aficionados di Nole sostengono  che si tratta solo di un temporaneo appannamento dopo 20 mesi di incredibili vittorie, coronate da quella tanto attesa degli Open di Francia, ricordando peraltro come già nel 2012 avesse rifiatato – e in maniera ben più significativa – dopo il fantastico 2011, e che a New York si tornerà a vedere il vero Djokovic.

Analizziamo quindi entrambi i punti di vista. Ma stavolta lo facciamo in un modo un po’ diverso dal solito: alla fine siamo in estate, tempo di letture sotto l’ombrellone e di film al cinema all’aperto, quindi possiamo concedere alla nostra fantasia di lasciarsi un po’ andare.

Immaginiamo allora di essere in un’aula di tribunale, una di quelle classiche dei film americani.
Da una parte l’accusa, composta principalmente da uno stuolo di avvocati iscritti all’ordine forense di Scozia, supportati però anche da un paio di colleghi arrivati da Basilea e da uno iscritto all’Ordine degli Avvocati delle Isole Baleari. Perché se c’è qualcuno che grazie al calo di Djokovic spera di diventare il nuovo numero 1, ci sono altri che si accontenterebbero di vincere anche solo ancora uno Slam…
Dall’altra la difesa, con in testa i migliori avvocati dell’Ordine di Belgrado, che si avvalgono della collaborazione di due avvocati di uno studio legale di Tokyo, perché anche gli sponsor si sentono coinvolti nella faccenda.
Entra il giudice (ci vedremmo bene un cameo di John McEnroe, con un suo “You cannot be serious” rivolto all’avvocato scozzese quando ad un certo punto del dibattito in aula omette di citare il mancino newyorchese nell’elenco dei più grandi tennisti di tutti i tempi, ma non esageriamo), tutti si alzano. Il giudice li fa sedere, controlla che la giuria sia al completo, presenta il caso (“Il mondo del tennis contro Novak Djokovic”) e dichiara aperta la seduta. La parola passa prima all’accusa e poi alla difesa. Ecco le trascrizioni delle rispettive arringhe.

L’accusa
Due sconfitte in due appuntamenti che per lui contavano molto, Wimbledon e i Giochi Olimpici di Rio, sono già di per sé il segnale che qualcosa si è inceppato nell’ingranaggio di quella macchina perfetta che sembrava essere Novak Djokovic. Ma se aggiungiamo a questo il fatto che il suo gioco quest’anno non ha mai raggiunto i livelli dello stagione precedente e che i primi segnali dell’usura fisica – ora il polso, ma già aveva avuto qualche fastidio alla spalla – dovuta alla carriera ormai ultradecennale (è passato professionista nel 2003) si stanno manifestando, appare evidente che il tennista serbo abbia iniziato la sua parabola discendente.

Il nervosismo dimostrato in più di un’occasione durante l’anno e forse anche le lacrime di Rio, sono indizi che vanno ad avvallare la tesi che il tennista serbo abbia chiesto il massimo a sé stesso e forse anche di più in questi anni, e che ora ne debba pagare le fisiologiche conseguenze. La difficoltà a ritrovare la massima concentrazione mentale dopo aver finalmente vinto il Roland Garros deriva anche da questo, come i già citati acciacchi fisici che stanno saltando fuori. Che per lui, che dell’efficienza fisica fa un baluardo del suo gioco, sono un problema di certo superiore rispetto ad un Roger Federer, che è riuscito dall’alto del suo talento a sopperire ad il normale calo fisico dovuto all’età modificando il suo gioco. Cosa che a nostro avviso Djokovic non è in grado di fare, o almeno non in modo tale da mantenersi agli attuali livelli.

Non si tratta, beninteso, di un crollo, dato che qui si parla di un fuoriclasse. Ma di un calo comunque ben percepibile, diciamo nell’ordine del 5%-10%, che di fronte ad un Andy Murray rivitalizzato dalla cura Lendl, che ha vinto proprio i due tornei clamorosamente mancati da Djokovic, e dei giovani che finalmente avanzano in maniera convincente, appare sufficiente a mettere la parola fine al dominio del 29enne di Belgrado sul tennis mondiale.

Giunti a questo punto potrebbe perciò essere quasi inutile, ma lo facciamo per rafforzare ulteriormente le nostre argomentazioni, ricordare come dei tre tennisti dell’Era Open che sopravanzano Djokovic nella classifica degli Slam vinti – Federer, Sampras e Nadal – nessuno ha vinto più di un Major dopo i 29 anni. E Djokovic li aveva già compiuti quando ha vinto quest’anno il Roland Garros.

Signori della corte, in base a quanto da noi esposto è perciò evidente che il dominio di Djokovic è da considerarsi concluso. Vincerà ancora, ma il 2011, il 2015 e la prima metà del 2016 non si ripeteranno più.

La difesa
I colleghi dell’accusa si basano su semplici elementi indiziari, noi vorremmo rispondere con alcuni fatti. Se confrontiamo il numero di tornei vinti, Novak Djokovic quest’anno si presenterà agli US Open con 7 trofei conquistati in stagione, rispetto ai 6 dello scorso anno. Appare evidente come la sua stagione sia stata resa più difficile del previsto dalla congiuntivite contratta a Dubai a febbraio, che lo ha costretto a cambiare “in corsa” la programmazione annuale. Ciò ha comportato qualche sconfitta di troppo, perché anche la preparazione e quindi l’approccio ad alcuni tornei sono stati giocoforza modificati a fronte dell’accaduto. Questo spiega il nervosismo palesato in alcuni frangenti, dato che un atleta come lui che cura ogni minimo dettaglio della sua professione ha dovuto adattarsi alla situazione contingente. Ma i risultati, complessivamente, non sono mancati: ricordiamo che prima di Wimbledon Novak aveva più punti in classifica di Andy Murray e Roger Federer, secondo e terzo nel ranking, messi assieme.

Si cita poi la sconfitta di Wimbledon contro Querrey, quando ben sappiamo che una situazione simile accadde anche lo scorso anno quando negli ottavi si trovò sotto due set a zero contro Anderson. Qui indubbiamente ha influito il post-Roland Garros, ma non possiamo certo accusare Djokovic del fatto di essere “umano” e di essersi rilassato un po’ dopo aver finalmente conquistato l’unico Slam che mancava alla sua collezione.

Diverso il discorso di Rio, a cui obiettivamente Novak teneva molto: alla fine si è scoperto però che era sceso in campo in condizioni assolutamente non ottimali a causa del problema del polso. E nonostante questo ha perso di un soffio con il futuro finalista, autore di una prestazione notevolissima. Per quanto riguarda l’infortunio, suvvia, un infortunio ci può anche stare senza che il giocatore venga sia subito catalogato nella categoria “usurati”. Soprattutto un atleta come Djokovic, che pone estrema attenzione alla preparazione fisica, è in grado a nostro avviso di esprimersi ancora per diverso tempo ai massimi livelli dal punto di vista fisico.

Ci piacerebbe infine che l’accusa non avesse omesso il nome del quarto giocatore che sopravanza Djokovic nella classifica degli Slam Winners: Roy Emerson. Vero è che si tratta dell’unico giocatore pre Era Open, ma era comunque da riportare per completezza che l’australiano dopo i 29 anni di Slam ne ha vinti tre. E dato che è stato citato Pete Sampras, pare giusto aggiungere che il suo grande rivale Andre Agassi dopo aver compiuto 29 anni di Slam ne ha vinti cinque, tra il 1999 ed il 2003. E l’integrità fisica del Djokovic attuale è indubbiamente maggiore di quella del Kid di Las Vegas, che alla stessa età lamentava già problemi alla schiena. Considerato inoltre come sia sempre stato molto attento alla sua programmazione, evitando di sovraccaricarsi, continuando così l’obiettivo di fare meglio di Agassi e quindi superare Roger Federer nel numero di Slam vinti è assolutamente alla sua portata.

Signori della corte, appare perciò evidente che il dominio di Djokovic non è assolutamente da considerarsi concluso. Anzi, proprio la capacità dimostrata quest’anno di alzare il livello di gioco nei momenti clou di un match, portano a propendere per il fatto che il tennista serbo sia in grado di prolungare la sua egemonia, avendo sviluppato e affinato la capacità di esprimersi al massimo solo quando serve, senza logorarsi eccessivamente sia mentalmente che fisicamente.
Insomma, signori giurati, come direbbe il famoso cantautore italiano Ligabue, per Djokovic “il meglio deve ancora venire” (citazione che potrebbe sorprendere in un’aula di un tribunale internazionale, se non fosse che due degli avvocati serbi si sono laureati in giurisprudenza a Bologna).

Sentite le argomentazioni, il verdetto spetta alla giuria popolare. La cui composizione, come nel più classico dei legal thriller, non è stata agevole: un paio di giurati esclusi da subito perché presentatisi ingenuamente in tribunale con una t-shirt con il logo RF, altri due sostituiti all’ultimo momento grazie ad uno degli addetti del tribunale, che essendo di origine serba ha percepito distintamente un “Ajde!” nel loro colloquio prima di entrare in aula. Alla fine, dopo una lunga seduta in camera di consiglio, i giurati si sono espressi. Ecco il testo della sentenza.

Il verdetto
Entrambe le parti hanno addotto motivazioni valide. Indubbiamente il Djokovic 2016 non è quello dominante visto nella passata stagione, ma 2 Slam e 4 Masters 1000 messi in cascina in sette mesi son comunque tantissima roba.
Questa è effettivamente la prima stagione in cui il n. 1 del mondo deve fare i conti con dei problemi fisici – tralasciando quelli di inizio carriera prima di scoprire la sensibilità al glutine – ma appare al momento prematuro parlare di calo fisico.
Pertanto, come insegna Agatha Christie, riteniamo che servano tre indizi per fare una prova: quindi le sconfitte di Wimbledon e Rio non bastano, dato che parliamo di un tennista che meno di due mesi fa ha completato il Career Slam ed è stato il primo giocatore dopo quasi 50 anni (da Rod Laver nel 1969) a detenere contemporaneamente il titolo di tutti e quattro gli Slam. E che in 20 mesi – dal novembre 2014 al giugno 2016 – ha vinto 19 tornei, di cui 6 Slam, 10 Masters 1000 e 2 ATP Finals.
Il verdetto viene pertanto rinviato al termine degli US Open. Una sconfitta a New York, magari per mano di quel Andy Murray che sembra finalmente in grado di raggiungere la vetta della classifica mondiale, potrebbe veramente significare che il dominio di Novak Djokovic sia terminato. Anche se, dall’altra parte, proprio una vittoria dello scozzese confuterebbe una delle tesi dell’accusa: dato che sarebbe il secondo Slam vinto dal tennista di Dunblane dopo i fantomatici 29 anni.

Insomma, riparliamone dopo New York. Anche se saremo ancora in estate quando il vincitore del singolare maschile alzerà il trofeo nell’Arthur Ashe Stadium e perciò, comunque vada a finire a Flushing Meadows, sarà difficile da sostenere che possa bastare una sola – per quanto negativa in termini di risultati – stagione astronomica per dire con certezza che la stagione di Djokovic si è conclusa. Forse solo in autunno, con gli ultimi Masters 1000 dell’anno e le ATP Finals, capiremo se è veramente iniziata la parabola discendente del tennista serbo oppure se, invece, il meglio per lui (leggasi record di vittorie Slam) debba ancora venire.

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