Nei dintorni di Djokovic prima di Djokovic: Boro Jovanovic, dalle strade di Zagabria a Church Road

Nei dintorni di Djokovic

Nei dintorni di Djokovic prima di Djokovic: Boro Jovanovic, dalle strade di Zagabria a Church Road

Il ricordo di Boro Jovanovic, uno dei grandi del tennis croato degli anni Sessanta, scomparso il 19 dicembre all’età di 84 anni. Finalista in doppio a Wimbledon 1962, tra i primi dieci al mondo in singolare nel 1963 e protagonista in Coppa Davis con la Jugoslavia. Ma proprio una brutta prestazione in Davis di fatto pose fine alla sua carriera

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Boro Jovanovic (Foto: Profimedia/IMAGO)
 

Quando si parla di grandi tennisti croati, i primi nomi che vengono in mente sono ovviamente quelli di coloro che hanno saputo imporsi ai massimi livelli del circuito ATP negli ultimi 20-25 anni, ovvero – in ordine cronologico – Goran Ivanisevic, Ivan Ljubicic e Marin Cilic. I più attenti magari vorranno aggiungere alla lista i nomi di Mario Ancic, che con “Ljubo” fu il protagonista del primo trionfo croato in Davis nel 2005 (suo il punto decisivo in finale a Bratislava contro la Slovacchia), Borna Coric, a sua volta uno dei principali artefici della vittoria del 2018 (portò il punto del 3-2, al quinto contro Tiafoe, nella semifinale thrilling contro gli USA a Zara) e dei tre grandi doppisti di questi anni Ivan Dodig, Mate Pavic e Nikola Mektic. In precedenza, però, il paese balcanico ha avuto altre due grandi generazioni di tennisti.

La prima è stata quella a cavallo della Seconda guerra mondiale, composta dai cosiddetti “quattro moschettieri” Franjo Puncec, Josip Palada, Dragutin Mitic e Franjo Kukuljevic, capaci di raggiungere cinque finali europee ed una finale interzona di Coppa Davis, quattro semifinali Slam in singolare e due in doppio. E poi ci fu la generazione protagonista negli anni Sessanta ed inizio anni Settanta: quella di Nikola “Nikki” Pilic, Boro Jovanovic e Zeljko Franulovic.
E proprio uno di loro ci ha lasciato da poco: Boro Jovanovic si è infatti spento il 19 dicembre scorso a Zagabria, all’età di 84 anni. Per raccontare ai lettori di Ubitennis chi è stato Jovanovic, il nome meno noto dei tre – sia perché il suo palmarès da giocatore è stato meno ricco, sia perché gli altri due sono rimasti nel giro del tennis che conta a livello mondiale: Pilic come coach, Franulovic come direttore del torneo di Montecarlo per tantissimi anni – abbiamo raccolto un po’ di materiale, da un paio di interviste degli anni Sessanta sino all’ultima rilasciata qualche anno fa, oltre ai principali dati della sua carriera.

Jovanovic era nato a Zagabria il 21 ottobre 1939. Una vita iniziata drammaticamente subito in salita, con la morte del padre. “Lo hanno ucciso all’inizio della Seconda guerra mondiale quando avevo un anno e mezzo, perciò non ho alcun ricordo di lui. Pare nascondesse alcune persone legate ai partigiani: qualcuno dei vicini lo denunciò; arrivarono, lo portarono via e lo uccisero”.
La passione per il tennis nasce grazie alle imprese dei già citati Mitic, Palada e Puncec nei primi anni dopo il secondo conflitto bellico. “Negli anni in cui c’era da decidere lo sport che volevo praticare, loro erano molto popolari: i ragazzini prendevano in mano le racchette di legno e giocavano per strada”. Boro si unì a quei ragazzini e a furia di sfide lungo le strade della capitale croata del dopoguerra, divenne uno dei più bravi. Tanto bravo che, quasi per caso, iniziò la sua carriera agonistica stupendo tutti ad un importante torneo giovanile a Zagabria. “Era 1953 e c’era il campionato giovanile croato sui campi del Tennis Club Salata. Mi trovavo lì, mi iscrissi e … arrivai secondo”.

Iniziò così la carriera tennistica di Boro Jovanovic, descritto come un giocatore di notevole talento, che si esprimeva al meglio sui campi in terra battuta e che raggiunse i suoi migliori risultati nella prima metà degli anni Sessanta. A livello Slam spicca la finale di Wimbledon del 1962 in coppia con il suo partner storico, Nikki Pilic. In quegli anni una delle coppie più forti al mondo, i due insieme vinsero anche l’oro alle Universiadi del 1961 e ai Giochi del Mediterraneo del 1963, in rappresentanza della Jugoslavia. Una curiosità: Jovanovic successivamente giocò molte volte in doppio anche con Franulovic ed in due occasioni, ai tornei internazionali di Viareggio e Firenze, i due affrontarono il nostro direttore Ubaldo Scanagatta, in coppia con Beppe Bonardi, vincendo entrambe le sfide (la prima in tre set, rimontando da 1-4 nel set decisivo). Tornando ai primi anni di carriera di Jovanovic, in patria venne nominato miglior sportivo croato nel 1961 e nel 1962, mentre il 1963 è l’anno che lo vide piazzarsi tra i primi dieci, per la precisione al n. 8, nella classifica mondiale di fine anno dei non professionisti, redatta ai tempi dal famoso giornalista statunitense Lance Tinglay. “Quelli sono stati gli anni in cui ho espresso il mio miglior tennis, fui il primo ad entrare nell’élite del tennis mondiale. Ma tutto era legato a Belgrado ed alla Federazione tennistica jugoslava. Loro dettavano le regole, minacciavano me e Nikki: dovevamo giocare la Coppa Davis, il campionato jugoslavo, quello croato, i Giochi del Mediterraneo, l’Universiade… Mentre io volevo giocare i tornei all’estero, guadagnare soldi, ero tra i primi dieci in Europa, e poi a livello mondiale”. Ai tempi aveva infatti raccontato che “mediamente in un torneo guadagno 500 dollari e gioco circa 30 tornei all’anno”.

In singolare, oltre all’oro conquistato alla citata Universiade di Sofia del 1961 (con un podio non proprio banale: secondo Pilic, terzo Ion Tiriac), sono da citare soprattutto un quarto di finale a livello Slam, a Parigi nel 1968, e le tre finali nei grandi tornei sul rosso: a Montecarlo nel 1961(sconfitto in finale dal francese Darmon), a Roma nel 1963 (dove, dopo aver battuto Pietrangeli nei quarti e Emerson in semifinale, perse in finale contro Mulligan in quattro set) e ad Amburgo nel 1965 (sconfitto dal sudafricano Drysdale). “Ho vinto pochi tornei, ma ho ottenuto buoni risultati nei campionati internazionali d’Italia e Germania, a Roma e Amburgo. All’epoca, erano tornei paragonabili agli odierni Masters 1000, si giocava al meglio dei cinque set”.

Una caricatura di Boro Jovanovic nel 1966
(fonte: Yugopapir.com)

In carriera sconfisse, anche più volte, diversi dei migliori giocatori dell’epoca, come gli australiani Emerson, Newcombe, Stolle, Hewitt e Mulligan, lo spagnolo Santana e l’azzurro Pietrangeli. Una delle sue vittime preferite nei primi anni di carriera fu proprio il dodici volte campione Slam Roy Emerson, che tra il 1961 ed il 1963 batté per ben quattro volte su cinque sfide disputate. E proprio una vittoria su Emerson è quella a cui teneva di più. Era il 1961, l’anno dei primi due Major vinti dall’australiano (US Open e Australian Open), il quale però ad Amburgo dovette inchinarsi di fronte al talento del tennista zagabrese che lo sconfisse nettamente, lasciandogli solo sette game in tre set e superandolo con il punteggio di 6-4 6-0 6-3 (“L’ho rullato”).

Al nome di Pietrangeli è invece legata la sua vittoria di maggior prestigio riportata negli annali, quella nel torneo di Viareggio del 1967, dove in finale sconfisse proprio il campione italiano in tre set (6-4 7-5 6-0).  A Pietrangeli lo legava anche l’amore per il calcio e la bravura con il pallone di cuoio tra i piedi, come aveva rivelato in un’intervista del 1966. “Se non fossi diventato un tennista, probabilmente mi sarei dedicato al calcio. Ho giocato a calcio sin da piccolo e alcuni dei miei miglior amici sono diventati calciatori. Quando giochiamo tra noi tennisti, Pietrangeli ed io siamo i migliori”.

Era un tennis diverso, era un mondo diverso. Ma una cosa non è cambiata: anche allora i tennisti viaggiavano per il mondo. “Sì, anche se all’epoca l’aereo era costoso, quindi si viaggiava soprattutto in treno o in nave. All’Australian Open giocavano principalmente gli australiani perché ai giocatori europei non veniva pagato il costoso viaggio fino a Melbourne. Inoltre, in giro per il mondo succedevano molte cose. Una volta Nikki ed io siamo andati a giocare a Giacarta. Dato che la situazione politica era piuttosto tesa, c’era quasi uno stato di guerra e c’erano soldati dappertutto, abbiamo esternato agli organizzatori le nostre preoccupazioni per la nostra incolumità. Anche un po’ per scherzo, abbiamo enfatizzato la cosa, ma sta di fatto che poi per tutta la durata del torneo ci portarono avanti e indietro, tra l’hotel e lo stadio dove giocavamo, su veicoli blindati.”

La tensione dei rapporti tra Jovanovic e la Federtennis jugoslava raggiunse l’apice nel 1974, un anno dopo che la medesima federazione si era resa protagonista del famoso “caso Pilic”, che aveva portato al boicottaggio del torneo di Wimbledon da parte di un’ottantina dei migliori giocatori al mondo. Quello di Jovanovic fu un po’ diverso e non ebbe certamente la medesima eco a livello internazionale di quello del suo amico Nikki, anche perché nel caso di Pilic si parlava di un giocatore che era stato appena finalista al Roland Garros ed era tra i primi venti giocatori al mondo, ma soprattutto perché fu utilizzato dalla neonata ATP come pretesto per scatenare una guerra mediatica contro la Federazione Internazionale (l’allora ILTF) a difesa di diritti e interessi dei giocatori. Sta di fatto che quanto accadde segnò la fine della carriera agonistica del tennista zagabrese. “Quell’anno dovevamo giocare a Donetsk contro l’URSS e chiesi di venir esonerato dalla trasferta perché c’erano già Pilic e Franulovic ed io non ero in forma perché non avevo giocato né mi ero allenato per un mese. Ma minacciarono di punirmi, quindi partii comunque. Successe che Franulovic si infortunò in allenamento, quindi l’unico giocatore disponibile ero io. Così fui costretto a giocare in quelle condizioni e la buttai in farsa (perse 6-4 6-1 6-1 con Metreveli e 6-2 6-4 6-0 contro Kakulia, oltre che in doppio in quattro set in coppia con Pilic, ndr). Perdemmo la partita, e al ritorno dovetti comparire davanti al tribunale disciplinare a Belgrado, accusato di non essermi impegnato abbastanza per la nazionale. Mi inflissero sei mesi di squalifica con il divieto di giocare all’estero, e poiché avevo già 35 anni a causa di quella sanzione e di tutto il trambusto legato a quanto successo, decisi di concludere la mia carriera”.

In realtà Jovanovic dopo la sconfitta nell’agosto 1974 con l’URSS fece un tentativo di rientrare nel circuito al termine della squalifica, nel marzo dell’anno successivo, ottenendo una sola vittoria e sei sconfitte, e decidendo in effetti di appendere la racchetta al chiodo a fine aprile, dopo aver perso al secondo turno del torneo di Nizza. È anche vero che gli ultimi risultati degni di nota risalivano al 1973, anno in cui aveva raggiunto gli ottavi di finale per la terza volta al Roland Garros e per la quinta a Roma, sulla prediletta terra rossa. “La cosa più disgustosa è stata che il presidente della Federazione mi aveva chiamato a Belgrado, mi aveva ascoltato e mi ha detto che capiva perché ero in conflitto con l’allenatore della nazionale e che non dovevo preoccuparmi. Pensavo che la faccenda fosse risolta. Invece dopo qualche giorno leggo sui giornali che ero stato squalificato! Questa è stata la cosa che mi ha più fatto infuriare e mi ha ferito, è stato veramente il culmine del pessimo rapporto tra noi giocatori e la federazione. Immaginate se oggi qualcuno ordinasse a Cilic e Coric di giocare la Coppa Davis, poi il torneo a Umago e a Zagabria, quando esisteva, poi il campionato nazionale, i Giochi del Mediterraneo, l’Universiade…”

Conclusa la carriera agonistica, come molti ex giocatori Jovanovic intraprese la carriera di allenatore. Ma con la dissoluzione della Jugoslavia ecco arrivare nuovi problemi con le istituzioni sportive, questa volta croate. Quel cognome dalle chiare origini serbe e quelle origini jugoslave (la mamma era bosniaca di Sarajevo, il padre originario di Sremska Mitrovica, in Serbia) non erano graditi dai vertici dello sport della neo costituita nazione balcanica. “Sì, a causa del mio cognome ho avuto qualche problema all’inizio degli anni ‘90, specialmente con persone che non mi vedevano di buon occhio e che quindi mi hanno ostacolato in vari modi. Ho ricevuto anche delle minacce, addirittura da persone del Comitato Olimpico. Vrdoljak (l’allora presidente del Comitato OIimpico croato, ndr) mi disse una volta: “Finché ci sarò qua io, tu non sarai nessuno nel tennis.” E chiamò il presidente della Federtennis croata dell’epoca, ordinandogli di non farmi avvicinare o di avere qualsiasi funzione all’interno della Federazione.” Un ostracismo che di fatto si concluse solo pochi anni fa, quando a Zagabria nel 2016 fu premiato dall’ITF con il “Commitment Award” per il suo impegno in Coppa Davis. Jovanovic, infatti, tra il 1959 ed il 1974 partecipò a ben 15 edizioni della competizione (saltò solo quella del 1970), disputando un totale di 65 partite, con 29 vittorie e 36 sconfitte. Considerando quanto accaduto nel 1974, la motivazione suona un po’ beffarda.

Una delle ultime apparizioni in pubblico di Jovanovic, premiato dalla presidente della Federtennis croata Babic (foto: Zeljko Puhovski/Cropix)


Tanto che la frase con cui chiuse la sua ultima intervista nel 2018, forse è quella che meglio sintetizza la storia sportiva di Boro Jovanovic, a suo modo rappresentativa di un sistema, di un paese, di un mondo che non esistono più. “Ne ho passate tante, ma per fortuna sono rimasto normale.”

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