I nove snodi verso Londra di Berrettini (prima parte)

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I nove snodi verso Londra di Berrettini (prima parte)

L’esordio fu un gancio al mento da Bautista, che undici mesi dopo si rivelerà l’avversario più ostico per le finalissime. Le prime quattro tappe della scalata di Matteo. Domenica la seconda parte

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Matteo Berrettini durante il torneo di Monaco di Baviera
 

A gennaio, diciamocelo tra noi che siamo addentro a un certo tipo di questioni, le prospettive non contemplavano necessariamente la possibilità di imbarcarsi su un aereo destinato a Londra. Non per questioni diverse dal meritatissimo viaggio di piacere, perlomeno. Invece, zitto zitto, passo dopo passo, pare sia davvero successo che, la bellezza di quarantuno anni dopo la comparsata di Corrado Barazzutti, un tizio alto e robusto nostro connazionale ci rappresenti alla chicchissima kermesse di fine anno. Un evento che, dopo otto lustri abbondanti passati a spiarlo dal buco della serratura, ci sembrava francamente precluso.

Matteo Berrettini non se l’è portata da casa, questa benedetta qualificazione: il ragazzo, sapientemente accudito da un team ragionevole e unito, è partito da lontano lavorando sodo e riponendo fiducia su talentuose basi, ma pur sempre dalla posizione cinquantaquattro dell’asettico ranking ATP all’inizio della stagione d’abbondante grazia 2019. Un numerino, il suddetto cinquantaquattro, che non interessava più di tanto il deus ex machina del progetto-Berrettini, quel Vincenzo Santopadre entusiasta e cauto intervistato dal giornale per cui mi onoro di scrivere giusto un anno fa.

I numeri non mi interessano, l’importante è fare la giusta esperienza e giocare un buon numero di incontri ai più alti livelli“. Figuriamoci, tutti insieme, la sua reazione quando timidamente gli è stato chiesto se sarebbe stata follia buttare nel discorso l’ipotesi Top ten. Perché “Matteo è un ragazzo eccezionale sotto molti tutti di vista, ma per entrare tra i primi dieci devi essere un fenomeno, al momento mi sembra complicato“. Volo a bassa quota, com’è giusto, e affidamento totale alla sempiterna massima al profumo di rose, ché se davvero lo sono, a un certo punto fioriranno.

Una fioritura così rigogliosa nemmeno i più ottimisti, i più irragionevoli; nemmeno i parenti più prossimi l’avrebbero attesa, eppure. Si è decollati da Doha, con risultati poco rassicuranti; si atterrerà domenica a metà pomeriggio nella City. L’accoglienza sarà a cura di Novak Djokovic: ad attenderlo ci saranno quelli forti, tra i quali Matteo non si è materializzato. Egli si è fatto largo, sfidando in primis sé stesso, lungo un percorso che idealmente dividiamo in nove simboliche tappe.

1 – L’ingresso

La stagione inizia piano, cinque giochi raccolti a Doha contro quel diavolo di Bautista Agut, atipico esemplare di spagnolo allergico all’argilla (un solo titolo sul rosso, a Stoccarda nel 2014) e amante della stagione invernale (sei trofei dei nove conquistati nel tour maggiore sono arrivati prima dell’equinozio di marzo). Il tennista valenciano, che battendo Berdych in finale di lì a pochi giorni avrebbe centrato, a proposito dei famigerati corsi e ricorsi storici, la duecentocinquantesima vittoria in carriera, coincidente con il titolo 250 numero nove messo in bacheca, undici mesi dopo sarà il rivale più ostico di Matteo per la qualificazione alle Finals: diciamo che, con il panettone ancora inzuppato nel caffelatte, in pochini avrebbero immaginato tale volata. Ma la vita, come sempre maestra suprema di tutte le discipline, ci ha bacchettati ancora una volta, poiché ci rifiutiamo di apprendere un concetto semplice: nei giochi che contemplano corpi sferici, e massime nel tennis, occorre lasciare il campo ingombro di tutte le ipotesi, finché la realtà accorre ad avvertirci che davvero non è il caso.

2 – L’approvazione

Dopo un’altra settimana tristanzuola ad Auckland Matteo migra a Melbourne, incombendo nelle ire della sorte, spietata nell’accoppiarlo al fenomenale Tsitsipas, il cui valore, già in quel momento, è di parecchio più alto rispetto alla quattordicesima testa di serie assegnatagli. Il romano gioca un gran match, vincendo il primo al tie break e “sentendo” il rivale vicinissimo per l’intera durata di una partita infine perso in quattro. Stefanos arriva fino alle semifinali, addirittura, confermando che il risultato è stato possibile anche grazie alla fiducia conferitagli dalla vittoria al primo turno su Berrettini, dal greco definito “grande giocatore“. La sua evidente vivacità costituzionale, naturalmente in senso tennistico, comincia a evolversi in riconoscimento.

3 – La consapevolezza

In Europa a febbraio fa freschino, occorre ripararsi nel sottotetto. A Sofia, angolo remoto del tour maggiore, un’altra svolta, a suon di rimonte, contro gente che quando vuole sa essere scontrosa. Prima Khachanov, uno che meno di quattro mesi prima aveva vinto Bercy, poi Verdasco, non un’assicurazione sulla solidità mentale ma scorbutico quand’è in giornata anzichenó. Matteo non riesce a superare in semifinale Marton Fucsovics, ossia l’avversario che al bar era stato valutato come “quello abbordabile“. Eccessiva ingenuità o esagerata arditezza, la nostra? Forse entrambe le cose. Fatto sta che Matteo dalla Bulgaria torna con la prima Top 50 della carriera in valigia: tredici mesi prima era fuori dai centotrenta.

Matteo Berrettini – Sofia 2019 (foto Ivan Mrankov)

4 – Presa di coscienza

Entrare nell’Olimpo, magari non proprio nelle prime file ma insomma, insieme a quelli che contano, per poi uscirne quasi subito. Quando uno si fa la bocca, è difficile tornare a masticare amaro. Eppure, Vincenzo Santopadre docet, ancora una volta, occorreva confrontarsi stabilmente al piano superiore anche a rischio di prendere scoppole mica male. Il morale sulle prime ne risente, poi si adegua e in ultimo persino si galvanizza. Vittoria al primo turno a Marsiglia, poi quattro rovesci da far girare la testa nei primi turni di Dubai, Indian Wells, Miami e Montecarlo. Un po’ di malumore intorbidisce il suo sguardo mentre confida al nostro Ferruccio Roberti, accorso nell’Emirato, che “è dura giocare solo i grandi tornei“. Per fortuna, tra i due maximille americani arriva opportuno il successo nel Challenger mascherato di Phoenix. E il doloroso penare al cospetto dei giganti pagherà quasi subito dividendi decisivi: a Budapest Berrettini centra il secondo titolo nel tour maggiore della carriera e la settimana dopo arriva un’altra finale a Monaco di Baviera. Come premio e conseguenza il computer lo riporta tra i primi cinquanta: non uscirà più.

Il racconto del 2019 di Berrettini proseguirà domenica, giornata d’esordio di Matteo a Londra, con la seconda e ultima parte di questo articolo

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