Scusaci Roger: ci siamo presi un altro pezzo di te

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Scusaci Roger: ci siamo presi un altro pezzo di te

Una lettera a Roger Federer, costretto al riposo, e costretto al ritorno

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Roger Federer - Wimbledon 2019 (via Twitter, @wimbledon)
 

Roger Federer, da molto tempo non sei più tuo. Il fatto non è una notizia. Questo è quello che accade a tanti, forse a tutti i personaggi pubblici. Questo è quello che ti è accaduto più che ad altri. Le cose vanno più o meno così.

In genere cominci col dare la tua riservatezza, la tua privacy. Così, perdi il primo pezzo di te. Non puoi più nasconderti, non puoi più fare finta di nulla. Non puoi innamorarti in silenzio, o piangere qualcuno, da solo o con chi ami. C’è un mondo di aspiranti vip che inondano i social di loro stessi. Per te Instagram è compreso nel prezzo, anche se non sai accendere un computer. Puoi tentare di metterti la parrucca in pubblico, come fece Boris Becker tanti anni fa, ma ti scoveranno. La tua intimità è andata, e da svizzero che sei nato ti ritrovi napoletano.

In seguito passi a dare la tua immagine. La abbandoni di colpo e lasci che la triturino in un caleidoscopio di triangoli colorati. Frammentata, essa appare dove meno te l’aspetti. La tua faccia è ovunque. Il tuo nome è ovunque. Dai la tua immagine a un paio di scarpe, a una racchetta in grafite. La dai a un istituto di credito svizzero, con polemiche, e a una marca di pasta italiana (con un pizzico, per noi, di orgoglio patrio). Diventi associato a quelle cose: ne eri nato libero ed ora la tua immagine è loro. Non eri obbligato a farlo, a fine mese ci arrivavi lo stesso. Ma non è mai esistito chi non lo facesse.

In compenso la dai anche a milioni di ragazzi che nelle scuole tennis di ogni latitudine provano a servire imitando il tuo movimento, o giocano il dritto nella speranza che il ciuffo gli rimbalzi sulla fronte. Non ci riescono, per carità, ma se riescono in qualcosa che ti assomiglia gridano “Roger”, e conoscono il primo brivido lungo la schiena. La tua immagine è con loro quando giocano a tennis, quando si distraggono a scuola, quando si chiudono nella loro stanza e non gli serve un videogioco o il poster appeso sul letto per averti. Basta l’aria in cui ti sanno materializzare. Potremmo quasi dire che ti prendono l’anima, se un bambino già sapesse come si fa.

Poi sono venute anche altre cose, che meno t’aspetti e che ci siamo presi forse senza il tuo permesso. Ci siamo presi le tue lacrime. A Parigi, a Londra. In Australia le abbiamo avute di entrambi i gusti, annate 2006 e 2009. Nessuno ha saputo imbottigliarle e farne elisir. Sono cadute sulla giacca di Rod Laver, sulla tuta di Rafael Nadal, si sono mischiate alla pioggia ed alla terra di Porte d’Auteuil mentre a Londra hanno bagnato i fili d’erba davanti alla sedia del cambio. Quanti di noi hanno pianto davanti a milioni di persone? Quanti di noi accetterebbero di farlo?

E poi ci siamo presi anche cose da poco, semplici souvenir. Qualche tua idea su cose di cui non avresti voluto parlare: politica, ambiente, psicoanalisi. Ti abbiamo chiesto le tue idee su Freud (caro Scriba…), e sulle cose che non sai, hai imparato a rispondere sul filo del sottile equilibrio tra il “come volete voi” e “come non voglio io”. Qualcuno, nel suo piccolo, si è rubato un frammento della tua voce dopo averti fatto una domanda in una conferenza stampa. L’ha registrata così com’era, incollata alla propria che poneva la domanda. L’ha risentita una volta sola per capire se era venuta registrata e l’ha conservata in una scatola di bottoni.

E quando ci siamo stancati delle cose immateriali, di quelle che non possiamo toccare, siamo diventati più morbosi e abbiamo cominciato a reclamare pezzi del tuo corpo. Ci siamo presi la tua mononucleosi nel 2008, breve ma intensa. La schiena l’abbiamo avuta in dosi costanti e cadenzate nel tempo. Dal 2008 ad oggi, in pratica un leasing, riapparso ad appagarci persino nel fortunato Wimbledon del 2012, quello in cui giocasti con la maglia della salute sotto la divisa bianca della Nike.

Ti abbiamo voluto in campo ad ogni costo. Ti abbiamo abbindolato con lodi per il giocatore che non si è mai ritirato a partita in corso, convincendoti a consumarti per noi. Ti abbiamo sfruttato anche un mese fa, per quattro ore contro Sandgren, mentre ti tirava l’inguine, e per altre due ore contro Djokovic, già consapevoli che non avresti potuto vincere. Ora ci siamo presi un ginocchio. Quello di quattro anni fa ci aveva già soddisfatti e mentre ne consumavamo le cartilagini già pensavamo alla tua generosità. Ci hai poi raccontato una incredibile storia di nemesi e ritorni, regalandoci in dono il più rivisto quinto set della storia del tennis.

Ce ne porgi un altro adesso, di ginocchio. Immolato ancora non sappiamo su quale altare: forse su quello delle troppe esibizioni, su quello di Città del Capo, sgranocchiato da 52.000 sudafricani, cannibali come nei racconti di Livingstone. Forse su quello di una folle rincorsa verso un altro Wimbledon, o meglio verso una fuga da Nadal e Djokovic che ti braccano, che alitano sul collo della preda e la costringono a correre senza più nessuna cautela. Ci siamo presi un ginocchio perché dobbiamo vivere l’attesa del tuo ritorno. È nostro ostaggio: lo vuoi indietro? Stupiscici. Perché il tennis è uguale da dieci anni e abbiamo bisogno di storie che ci emozionino. Per questo prenotiamo i posti in prima fila per il tuo ennesimo ritorno. Wimbledon 2020 come l’Australia del 2017. Senza pensare che a te quel giorno potrà far male un braccio o un cuore. “Facce ride!” Roger, anche se sei triste.

A questo sadismo tennistico non c’è nessuna complessa spiegazione. Questo desiderio di avere in campo, ancora a 38 anni, una persona che ha tutto il diritto ma nessuna voglia di mollare, è solo amore e desiderio. Perché ti vogliamo. Siamo come quegli uomini che maltrattano le loro donne e dicono di farlo per amore. Se è allora così, non è né amore, né ammirazione. Ci stiamo confondendo anche noi. Quando ci esaltiamo per una volée e gridiamo anche noi il tuo nome, non facciamo altro che gridare il nostro. Pezzo dopo pezzo ti abbiamo preso per intero, tu e le tue vittorie. Servi a noi che non sappiamo vincere nulla di quel che vogliamo.

Allora, in cambio, io vorrei restituirti almeno qualcosa, seppur in piccola parte. Restituirti un po’ di tempo per scegliere. Perché alla fine ci siamo presi anche quello. Non che le cose ti siano andate malaccio in questi venti anni, per carità. Ma i tuoi anni sono stati anche fagocitati da giornali che senza di te venderebbero la metà delle copie, o sminuiti da donne centenarie che ti chiedono di continuare a giocare, che 38 anni per loro che saranno mai? Un finger-food. Diceva Enzo Ferrari che un pilota perde un secondo a ogni figlio che gli nasce. Certo si parlava di un secondo al giro, non è paragonabile. Ma io ad esempio, che di secondi ne dovrei perdere soltanto uno, so che fuori dalla pista quel secondo si dilata oltre ogni ragionevole tempo ed ogni oltre impegno. Oltre quello che sei. Tu hai quattro figli, ma sembra che tu non abbia diritto a nessuno di quei quattro secondi.

Te li offro adesso io e con me tutti quelli che ti augurano che il tuo ginocchio stia presto bene, senza che a questo debba per forza seguire l’impossibile. Te li offriamo nell’unica maniera che possiamo fare. Contali con noi, respirando ad ogni cifra. Uno. Due. Tre. E quattro. In quattro secondi si può dire qualsiasi cosa che sia importante: ti lascio, sei padre, ti aspetto, ritorno. E se si vuole, si può anche dire addio.

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