Personaggi
Anisimova, la prossima Amanda
“I paragoni con Sharapova mi gratificano, ma sarei già molto contenta se riuscissi a interpretare la miglior versione di me stessa”

Amandina è pronta a tornare, come quasi tutte le sue colleghe, peraltro. Ma la biondissima russa da Freehold, New Jersey, attira di più, molto di più, di molte di loro, è un fatto. Talento eufemisticamente precoce, Amanda era una superstar in pectore già ad anni tre, quando, messale una racchetta in mano, il padre Konstantin si avvide della notevole predisposizione al tennis della figlioletta, e decise di percorrere in direzione sud duemila chilometri sulla I-95 per trasferire la dimora della famiglia a Miami, là dove si trovano i più qualificati campionifici della Confederazione.
Premesse buone, risultati pure, almeno per ora, sembra di poter affermare. Finalista al French Open per ragazze nel 2017 e pochi mesi dopo campionessa a New York sempre tra le under, ad Amanda il temutissimo passaggio al professionismo ha fatto il solletico: a sedici anni, Indian Wells edizione 2018, prima vittoria su una top ten di non trascurabile pedigree come Petra Kvitova. L’anno dopo, quarto turno a Melbourne, primo titolo nel circuito grosso a Bogotà e addirittura semifinale a Parigi – prima ragazza nata nel nuovo secolo a finire tra le prime quattro in uno Slam – con scalpo della detentrice Halep nei quarti di finale. Come logica conseguenza, la classifica ha risposto di lì a poco gratificandola con la ventunesima piazza mondiale, tutt’ora best ranking per l’ambiziosissima ragazzina prodigio.
Com’è noto, in periodi di vita piuttosto brevi una stella precoce accumula una serie di esperienze, gioie e rimpianti che una persona ordinaria mette insieme in una vita. Così, assaggiati molto presto celebrità e successo, Anisimova ha già dovuto conoscere il dramma della morte, che la scorsa estate ha portato via il suo papà-coach Konstantin, colpito da un attacco cardiaco. Un trauma così profondo forse non merita che se ne descrivano le conseguenze sull’attività lavorativa, figuriamoci se il lavoro è uno sport, eppure ci tocca anche questo: ovviamente saltato lo US Open 2019 e ripresentatasi solo a Wuhan, Amanda non ha più ritrovato il passo, riuscendo fino al momento del lockdown a vincere più di un match solo in tre tornei, l’ultima volta a Doha. C’è da pensare che lo stop forzato, con ranking congelato, non le sia dispiaciuto: per pensare a difendere la semifinale di Parigi c’è ancora un po’ di tempo.
Un saliscendi emozionale, sportivo e umano, che tocca quasi solo ai prescelti, e Amanda è prescelta da quando ha imparato a camminare senza aiuti terzi. Diva, quello lo è diventata poco dopo, dal preciso momento in cui molti l’hanno insignita del prestigioso e temuto titolo di erede di Maria Sharapova. Indubbiamente bionda, sicuramente talentuosa e molto probabilmente provvista della giusta mentalità, l’attuale ventotto WTA il paragone potrebbe reggerlo, eppure lo schiva: certo non per timore. “Masha è stata una giocatrice unica, ha ottenuto risultati pazzeschi ed esserle paragonata è un onore immenso. Il mio obiettivo sarebbe però quello di essere me stessa e di mantenere le promesse, rispettare le aspettative che in molti e da molto tempo ripongono su di me“. Decisa, la ragazzina.
L’impatto mediatico dell’erede, se non ancora paragonabile a quello avuto dalla diva Maria, è comunque conseguente allo strombazzamento generale. Qualche settimana fa, Amanda, già da tempo super testimonial per azienducce quali Nike e Gatorade, ha firmato un accordo pluriennale con la Therabody di Los Angeles, brand guida del più moderno benessere tecnologico e delle terapie a percussione, che ormai da tempo si prende cura dei muscoli dei più influenti esponenti del jetset hollywoodiano. Un’esposizione globale che gonfia il portafoglio ma che può far perdere di vista il focus, se non addirittura far tremare le gambe. “Serve un livello di maturità superiore rispetto a quello normalmente richiesto a una ragazza della mia età” ha dichiarato, sicurissima, Amanda. “Occorre capire chi sei, cosa stai facendo e soprattutto dividere i due ambiti lavorativi, quello commerciale e quello sportivo, per non finire travolti“. Una lucidità non scontata, mi si perdoni la considerazione. “Quando giochi a tennis a determinati livelli sei in ogni caso costretto a crescere molto in fretta, quindi o maturi, o maturi, altrimenti conviene cambiare mestiere“.
E a lavorare per davvero si tornerà presto, lo si dica sottovoce, per non stimolare ulteriori inghippi indigesti. Per Amanda è quasi finito il tempo dei blandi allenamenti ai trentasette gradi di South Beach e delle prolungate sessioni di pet therapy domestica in compagnia del cane Miley. “Sono pronta, ogni giorno guardo il calendario e vedo che manca sempre meno tempo alla resa dei conti, ai due Slam in meno di un mese. Mi preoccupa l’assenza del pubblico, perché finora il pubblico è stato parte integrante del gioco, ma con tutto quello che mi e ci è capitato, il solo fatto di tornare a giocare rappresenta uno stimolo più che sufficiente“.
Salvo cataclismi o mattane ancora possibili, dopotutto Amanda non ha ancora compiuto diciannove anni, si ha il sospetto che la guida della prossima generazione potrebbe essere proprio lei. E forse i tempi d’attesa non saranno così lunghi.
Coppa Davis
Coppa Davis, Jannik Sinner “caso Nazionale”: per me è colpevole
Immagine, uguaglianza e spirito di squadra: perché pensiamo che Jannik Sinner abbia sbagliato a rifiutare la convocazione in Coppa Davis

“Sfortunatamente non ho avuto abbastanza tempo per recuperare dopo i tornei in America e purtroppo non potrò far parte della squadra a Bologna. È sempre un onore giocare per il nostro paese e sono convinto di tornare in nazionale al più presto. Un grosso in bocca al lupo ai ragazzi, ci vediamo” recitava il tweet di Jannik Sinner.
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Immagine pubblica, modelli e confronti
Nonostante la chiusura con un cuore e la bandiera italiana e il durissimo match allo US Open perso con Zverev dopo 4 ore e 41 minuti, a molti la decisione non è affatto piaciuta, una motivazione giudicata insufficiente, una scusa. Tra le critiche, ha ventidue anni, c’era più di una settimana per recuperare, e allora Djokovic, che di anni ne ha trentasei e a New York ha disputato tre match in più, eppure ci sarà? Il confronto a prima vista impietoso in realtà dimentica che Novak gioca un circuito a parte in cui si presenta quando gli fa comodo (come le regole gli permettono). Nole era ancora nella fase di riposo post-Wimbledon quando Jannik vinceva Toronto, lo slam americano è stato il suo decimo torneo dell’anno (diciassettesimo per Sinner) e avrebbe poi saltato l’intera tournée asiatica.
Nonostante tutti i distinguo elencati, pensiamo (questa e ogni altra prima persona plurale da intendersi come opinione di chi scrive) che Jannik abbia sbagliato a chiamarsi fuori. Non perché l’Italia abbia rischiato l’eliminazione (quello che è successo dopo il rifiuto qui non ci interessa) e nemmeno, a prescindere da quanto detto, dalla presenza di Djokovic. Questo secondo motivo ha invero una sua validità, poiché la percezione spesso conta quanto e più di una realtà articolata. E la percezione di molti appassionati e addetti ai lavori si è risolta in un pollice verso. In alcuni casi superando il limite (sempre a nostro avviso), con frasi come quelle apparse su Sport Week della Gazzetta: “E se Jannik Sinner, il Peccatore, chiedesse scusa del suo peccato? Non all’Italia o agli italiani ma a se stesso”.
Parliamo della programmazione sportiva di un giovane atleta, non di rappresentanti delle istituzioni che calpestano la Costituzione. Perché finché si scherza sul cognome di Jannik è un conto, ma usarlo impropriamente (Sinn in tedesco significa senso, non peccato) per montare quella che sa di stantia retorica cattolica, anche no. Al contempo, troviamo ragionevole il concetto di fondo.
Tornando alla percezione, all’immagine pubblica – oltre all’innegabile fatto che un top player è anche un modello per giovani e giovanissimi –, non possiamo non rilevarne l’importanza per un professionista, anche in forza della correlazione tra apprezzamento dei tifosi e sponsor, tanto che valutazioni commerciali possono mettersi di traverso con quanto hanno in mente coach, fisio e preparatori atletici. Citiamo solo i recenti casi di Matteo Berrettini, ancora non in condizione al Boss Open di Stoccarda, e di Emma Raducanu, che ha saltato la BJK Cup (se non rimandato gli interventi chirurgici) in favore del Porsche Tennis Grand Prix di… Stoccarda. A proposito di Berrettini, l’assenza bolognese di Jannik è stata ancor più rumorosa per la presenza in panchina di Matteo: “Il suo è stato un comportamento da leader” ha commentato il presidente della FITP Angelo Binaghi.
Uno per tutti, tennis per uno
A favore della scelta di Sinner, l’obiezione per cui il tennis è uno sport individuale: il giocatore rappresenta sé stesso e decide il meglio per la propria carriera. Forse a un calciatore del Napoli non importa della propria carriera solo perché durante quei novanta o quaranta minuti passa (o non passa) la palla a un compagno libero? Calciatori, cestisti, pallavolisti, tutti possiedono verosimilmente il cosiddetto “spirito di squadra”, caratterizzato dal senso di appartenenza, dalla condivisione degli obiettivi, dalla cooperazione. Però, la squadra che si nutre di questo spirito è l’Inter, è la Virtus, è il Modena Volley, non la nazionale. Dopotutto, se il pallavolista gioca lo stesso sport che si tratti di Serie A o Mondiali, lo stesso vale per il tennista in un torneo individuale o in un incontro a squadre: Musetti era in campo da solo allo US Open ed era in campo da solo a Bologna in Davis. E, probabilmente, rappresenta più l’Italia uno dei nostri tennisti in giro per il Tour che un club del pallone in Coppa dei Campioni. Non si chiama più così? Sta’ un paio d’anni senza seguire il campionato e ritrovi un altro mondo.
Al passo con i tempi
Senza dunque grosse differenze a seconda che in campo ci siano uno o più atleti, la convocazione dovrebbe in ogni caso essere percepita come un onore: scelto per rappresentare tutti i giocatori, dagli amatori a salire, e, in ultima analisi, il Paese stesso di fronte al mondo. Se l’obiezione è, sai che sorpresa, sono il più forte di tutti, in genere le primedonne non riscuotono i favori del grande pubblico. Ma ci torneremo.
Prima è necessario considerare anche la possibile diversa percezione di questo onore tra le nuove generazioni. Perché il fatto che le critiche più aspre siano arrivate da Adriano Panatta e da Nicola Pietrangeli, il capitano della “Squadra”, quella che ha vinto la Coppa Davis nel 1976, fa nascere questo dubbio. Qui però si corre il rischio di generalizzare, di nascondere “tutte le facce dietro una sola, che è quella dei sondaggi di opinione: i giovani qua, i giovani là, i giovani un gran paio di maroni” (citazione a memoria di Ligabue, 1995) e non possiamo fare molto più che interrompere l’allenamento dei ventenni con cui condividiamo la palestra per scoprire che preferirebbero giocare nel Milan (o quella che è) che nella Nazionale. Resta vero, e lo riconoscono gli stessi Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, che il calendario e le priorità sono cambiate rispetto a quei tempi. Quando c’era ancora la mezza stagione, signora mia.
Restando in tema di (bei?) tempi andati, c’è poi la scusante “non è più la Davis di una volta”, quindi a chi importa se ci va o no. Perché regga, però, non può essere immaginata, vale a dire che il tennista di turno lo deve dichiarare, “questo formato è una schifezza, rifiuto di esserne parte”. Novantadue minuti di applausi, poi succeda quel che succeda.
Regole: per molti ma non per…
Dallo Statuto FITP 2023: “Gli atleti selezionati per le rappresentative nazionali sono tenuti a rispondere alle convocazioni e a mettersi a disposizione della FITP, nonché ad onorare il ruolo rappresentativo conferito” (art. 10, c. 2). La violazione della norma prevede che siano “puniti con sanzione pecuniaria e con sanzione inibitiva fino ad un massimo di un anno” (Regolamento di Giustizia, art. 19, c. 1). In caso di sanzione definitiva, stessa punizione per il coach (c. 3).
Ammettiamo di non aver letto l’intero Statuto neanche ai tempi dell’esame da ufficiale di gara e non possiamo quindi escludere l’esistenza di un’eccezione. Il riferimento è alle parole “assolutorie” di Angelo Binaghi: “Se l’obiettivo continua ad essere, e deve continuare ad essere, quello di vincere gli Slam – il giorno in cui questo mostro che si chiama Djokovic che tra tre, quattro anni avrà circa quarant’anni e giocherà un po’ meno – bisognerà farsi trovare pronti […]. Dunque, in questi casi bisogna fermarsi.”.
Una disparità di trattamento che non può e non deve essere legittimata, non solo in quanto l’uguaglianza di fronte alle regole è un principio basilare, bensì perché rischia di minare il citato spirito di squadra e la passione per la rappresentativa azzurra, arrivando a far percepire il “giustificato” come una primadonna che impone e antepone i propri capricci ai compagni.
Tra l’altro, se il metro di giudizio che vogliono vendere è “chi potrebbe vincere Slam fa quello gli pare”, sarebbe quantomeno opportuno che venisse delegato uno bravo a fare previsioni, dal momento che Simone Bolelli, nel 2008 oggetto di pubbliche ire binaghiane per il suo “no” alla convocazione, uno Slam l’ha poi vinto. Mentre Sinner (con quelli della sua generazione) è stato invero certificato dal proclama federale al pari dei componenti della Lost Generation e degli Original Next Gen: tennisti che per vincere titoli pesanti altro non possono fare che attendere il ritiro dell’essere mitologico chiamato Big 3, pur rimasto con una sola testa.
Fraintendimenti faziosi
Anche se non dovrebbe esserci bisogno di chiarirlo, tifare per la nazionale o sentirsi onorati di vestirne i colori nulla ha a che fare con il peggior lato del nazionalismo, che invece di bearsi dell’unicità della propria nazione la ritiene superiore a tutte le altre, quel nazionalismo che ha portato alle relative dittature del secolo scorso e alla seconda guerra mondiale, quell’ideologia che ora ritrova nuova linfa anche grazie alle risposte ignoranti (al)le sfide della globalizzazione e del nuovo millennio. No, sperare che la rappresentativa del proprio Paese vinca i mondiali di pallavolo, gli ori alle Olimpiadi, la Coppa Davis, così come credere che Jannik abbia sbagliato a rifiutare la convocazione, non c’entra nulla con quanto sopra e con il Deutschland über alles urlato dagli spalti a Zverev (gran presenza di spirito da parte di Sascha nella reazione, peraltro).
Perché, parlando con un amico, una persona può scherzare sul proprio figlio, definirlo anche un po’ scemo, ma mai accetterebbe che a chiamarlo così fosse l’altro. Allo stesso modo, quando Pietrangeli parlando “in generale” ha avuto quell’uscita infelice, quel “se non sei fiero di giocare per il tuo Paese fatti fare un certificato medico fasullo” all’interno di un discorso altrimenti sensato – condivisibile o meno, siamo qui per questo –, noi possiamo spingerci nella satira dicendo che quel certificato è forse il vero simbolo dell’italianità. Ma se ce lo rinfacciassero un francese, un russo, un americano, beh, non gliele manderemmo a dire.
In conclusione, a dispetto degli infiniti episodi di becera quotidianità, non viviamo nel caos e accettare con entusiasmo la convocazione significa anche rappresentare un ideale di cooperazione alla cui altezza nessuno di noi è in grado di vivere. Per questo, pur rifiutando la dicotomia innocentisti/colpevolisti, soprattutto nella parte in cui si addossano colpe, riteniamo che Jannik abbia sbagliato. E che Volandri sbaglierebbe se lo chiamasse per la fase finale di Malaga. Poi, il 2024 è un altro anno.
ATP
Il team di Sinner si racconta: “Ognuno svolge il suo compito con estrema serietà. Il più competitivo? Jannik senza dubbi”
In un video-intervista all’ATP il team del tennista altoatesino si racconta a tutto tondo, da come svolgono il proprio lavoro al rapporto tra i membri della squadra, per finire con un ritratto di Sinner atleta ma anche persona

Il tennis, espressione massima della solitudine nel proprio palcoscenico, è ormai da molti anni descritto dalla totalità dei giocatori del circuito ATP e WTA come uno sport certamente individuale, ma nel quale il team è la colonna portante dell’intera struttura. Dal coach al super coach, dal fisioterapista al mental coach, dal preparatore atletico al manager. Tutti ingredienti fondamentali dietro le quinte – o meglio, nel famoso ‘box’ a bordo campo molto inquadrato dalle telecamere e osservato, chi più chi meno, dai giocatori in campo – che possono rendere un tennista il tennista, capace grazie alla propria forza di volontà e a tutti questi tasselli nel background di raggiungere, o meno, il successo e i propri obiettivi. La storia del tennis è colma di coach che hanno fatto la differenza: da Toni Nadal mentore di suo nipote Rafa, da Patrick Mouratoglou allenatore per un decennio di Serena Williams, per poi arrivare ai colori azzurri con Andreas Seppi e Massimo Sartori, Lorenzo Sonego e Gipo Arbino, Lorenzo Musetti e Simone Tartarini, per concludere con Jannik Sinner e…
Questo è un capitolo bello corposo da trattare: il team del n.1 italiano. Chi c’è dietro quella folta chioma rossa? Certamente i primi che vengono in mente sono Simone Vagnozzi e Darren Cahill – entrambi ex giocatori –, che per Jannik svolgono rispettivamente il ruolo di coach e supercoach. Un’intervista molto approfondita dell’ATP analizza ai raggi X la squadra del tennista altoatesino, che numerosa è dir poco. “Sono persone buone e felici; ognuno sa molto bene di cosa si deve occupare. Mi sento fortunato ad avere un team così”, le prime parole di Sinner sul proprio team, che come dirà poco dopo “è come una famiglia. Vedo più spesso loro che i miei genitori”. Si capisce sin sa subito quello che il n.7 ATP cerca tra i propri membri della squadra: competenza e affinità. Infatti, “per me ognuno è fondamentale. Quando qualcuno entra a far parte del gruppo non è importante solamente che sia uno dei migliori nel suo lavoro, ma è essenziale anche come io mi senta con questa persona. Devo essere a mio agio e sapere che posso parlare di qualunque cosa che mi passi per la testa con tutti quanti”.
Successivamente la palla passa agli allenatori di Sinner, Vagnozzi e Cahill. La collaborazione con il primo inizia a febbraio 2022, come ricorda anche il 40enne di Ascoli Piceno, mentre la più fresca entrata – a giugno 2022 – è quella dell’ex semifinalista allo US Open Darren Cahill, coach in passato di personaggi come Andre Agassi, Lleyton Hewitt, Andy Murray e Simona Halep. “Il mio ruolo è più quello di trasmettergli la mia esperienza” ci informa l’australiano, “sono stati dei primi mesi di collaborazione molto buoni e produttivi”. Si sapeva già l’attitudine di Jannik in campo, ma il tennista italiano ci tiene comunque a farlo sapere chiaro e tondo: “Sono il più competitivo, odio perdere”, e sia Vagnozzi che Cahill dicono all’unisono che “Jannik vuole vincere dappertutto, in ogni cosa che fa”.
L’ex allenatore australiano di Coppa Davis tira in ballo anche il preparatore atletico di Sinner, Umberto Ferrara, definendolo come “il più serio”. Nel tennis “il corpo deve essere il tuo tempio, di conseguenza probabilmente lui ha il lavoro più importante di tutti. A cena dice sempre a Jannik quello che sarebbe meglio mangiare e ciò che si deve evitare”. E conferma anche Umberto che, mettendo le mani avanti, informa subito che “quando lavoriamo siamo tutti seri. Quando è terminato l’allenamento, invece, si può scherzare tutti insieme”. Ma non mancano nel team Sinner momenti di svago conviviali, rigorosamente nella maggior parte dei casi con le carte da gioco. Il ‘Burraco’ è quello che va per la maggiore ed è stato Giacomo Naldi, fisioterapista dell’altoatesino, a introdurlo a tutta la squadra. “Jannik vuole giocare tutti i giorni” fa sapere Giacomo, che spiega questa ‘tradizione’ del 22enne di San Candido chiarendo che “la prima volta che abbiamo giocato insieme Jannik ha vinto il torneo a cui stava partecipando; quindi è per questo che vuole sempre giocare secondo me”.
Passando alla routine, invece, tutti i membri del team intervengono dicendo la propria, precisando che “Sinner innanzitutto svolge qualche esercizio di mobilità e prevenzione, soprattutto alcuni specifici movimenti che lo proteggono da infortuni avuti in passato, come ad esempio quelli alla caviglia”. Poi arriva il turno di Naldi prima e dopo l’allenamento. Quest’ultimo è di un’ora e mezza, in cui il campione azzurro viene seguito da Vagnozzi, Cahill e consiste in palleggi di ritmo con uno sparring partner, per finire con qualche punto. Nel pomeriggio, invece, “un’ora di tecnica in cui ci si concentra sul servizio, sulle volée, sullo slice…”, mentre la maggior parte del lavoro di Giacomo Naldi, come lui stesso afferma, avviene dopo: “Faccio qualche massaggio, qualche ulteriore esercizio di mobilità, lavoro con i suoi muscoli e cerco di far sì che il suo corpo possa recuperare al meglio”.
Come dice anche Sinner, non è un rapporto unilaterale quello tra coach e giocatore, infatti “loro mi spingono a dare il meglio di me, ma anche io li sollecito parecchio. Ogni giorno è una sfida, ed è fondamentale non solo che loro siano miei amici, ma che sappiano anche essere onesti con me”. Cahill, poi, interviene facendo sapere un aspetto molto importante della persona-tennista che è Jannik Sinner: “Non c’è molta differenza tra lo Jannik che si vede in campo e quello che si osserva al di fuori di esso. Lo si può vedere nei suoi occhi da volpe, che al momento giusto possono diventare quelli di una tigre”. Vagnozzi, invece, si sofferma sul fatto che “Sinner quando entra in campo vuole sempre migliorare, è costantemente col sorriso, quindi per un coach è più semplice svolgere il suo lavoro”. Mettendo sul piatto della bilancia i risultati di quest’anno “Jannik è soddisfatto, ha più fiducia dopo la semifinale a Wimbledon e il titolo a Toronto. Questi erano suoi obiettivi”.
Un team solido, unito, familiare, dove ognuno ha un preciso compito e allo stesso tempo è un pezzo fondamentale del puzzle finale. Jannik ha solamente ventidue anni, ha già conquistato vette importanti del ranking, ha vinto tornei 250, 500 e 1000, è stato semifinalista Slam e, cosa più importante, è seguito da persone che credono nei suoi mezzi e lo stimolano al meglio. Dopo la parentesi US Open seguita da quella – mancata – di Coppa Davis, per Sinner ora è il momento di tuffarsi nell’ultimo periodo della stagione, con gli ultimi due tornei 500, due tornei 1000 e le Finals di fine anno dove non è ancora qualificato ufficialmente, ma gli mancano pochissimi punti per raggiungere la quota sufficiente per parteciparvi. Sappiamo che dopo New York Jannik si è dedicato al puro allenamento in vista dei prossimi appuntamenti. Il team ora lo conosciamo, sappiamo come lavorano, quindi non ci resta che metterci comodi e osservare le gesta del nostro n.1. Cinture allacciate, direzione Pechino!
ATP
Il numero uno indiano, Sumit Nagal: “Ho solo 900 euro nel mio conto bancario”
Il campione del challenger di Roma Sumit Nagal commenta in maniera critica il prize money dei tornei minori

Sicuramente una stagione positiva a livello challenger quella che il numero uno indiano Sumit Nagal sta vivendo. Il 26enne ha sicuramente messo in mostra il suo miglior tennis sui campi di Roma e Tampere (in cui ha portato a casa il titolo) ed è reduce dalla finale persa contro Kopriva a Tulln, in Austria. Il conto bancario del tennista non coincide però, suo malgrado, con il livello del suo tennis. Nagal ha espresso il suo parere in maniera critica all’agenzia di stampa Press Trust of India: “Ho solo 900 euro nel mio conto bancario. Non sto vivendo un’ottima vita” . Ne aveva parlato anche Djokovic in un’intervista, dichiarandosi davvero fortunato.
Il montepremi dei tornei Challenger e ITF non è abbastanza alto per poter permettere ai giocatori di vivere di tennis. L’indiano è già supportato da alcuni sponsor tra cui Yonex e Asics che gli forniscono racchette e scarpe, ed ha avuto un ulteriore aiuto per poter sostenere le spese di iscrizione e soggiorno ai tornei: “Guardando il mio bilancio economico, oggi ho quanto avevo all’inizio dell’anno. 900 euro. Ho ricevuto un piccolo aiuto. Prashant Sutar mi sta aiutando con la fondazione tennis MAHA e sto avendo anche un salario mensile dalla Indian Oil Corporation”.
Il tennista è amareggiato dalla mancanza di sponsor importanti dopo il suo infortunio: “Sento come se nessuno credesse più in me da quando il mio ranking è sceso a causa dell’infortunio. Nessuno pensa che io possa tornare a quei livelli. Onestamente, non so cosa fare, ci ho rinunciato”.