Ora che quello che doveva succedere è successo, ora che quei due non sono tanto lontani, ora che ha fatto quello che soltanto altri due hanno fatto chissà se Novak Djokovic ci racconterà cosa successe quel 7 giugno dell’anno scorso, dopo le lacrime che commossero i parigini, dopo che quel rovescio si sommò ad un ace, ad un doppio fallo, ad un dritto lunghissimo, ad un altro doppio fallo. Davvero sembrava una maledizione, il giocatore che vinceva ovunque e con chiunque, appena sbarcato all’ombra della Tour Eiffel trovava sempre un motivo per doverci riprovare l’anno dopo. O il fuoriclasse nella giornata degli dei, o il diavolo rosso, o uno spiritato con i pantaloni a quadrettoni. Stavolta, quando il rovescio di Andy Murray si è infranto poco sotto il nastro della rete, Novak Djokovic, l’uomo che è riuscito dove tutti quanti avevano fallito, è sembrato quasi smarrito. Il tonfo sull’argilla, le mani in viso, la corsa a rendere onore allo scozzese, l’invito ad applaudirlo, tutto è sembrato dettato dall’improvvisazione. Per contrasto, tutto ricordava l’incredibile successo di Michael Chang nel 1989, che dopo aver superato Edberg – un marchio di fabbrica il dritto in rete dello svedese – alzò le braccia al cielo, saluto cortesemente il rivale e poi tirò fuori un bigliettino in cui aveva appuntato il discorso della premiazione. Ecco, tanto sembrava preparato Chang, un ragazzino di neanche 18 anni, alla sua prima vittoria così importante, tanto sembrava incredulo Djokovic, un uomo di 29 anni forgiato da mille partite, passato da vittorie (tante) e sconfitte (sempre meno). E in fondo, appunto, tutto cominciò con quel rovescio lungolinea.
Djokovic pianse e pianse, ma 20 giorni dopo era a inaugurare i Championships, che l’anno prima aveva vinto dopo aver respinto il solito assalto di quello lì, quello dell’ace. Nole si prese la solita pausa e il 29 giugno alle 13, ora di Greenwich, nella tenuta bianca d’ordinanza, Djokovic si presentò davanti a Kohlschreiber. Non certo un primo turno semplice, ma insomma la differenza tra i due adesso è troppo netta e al serbo è sufficiente strappare il servizio nel decimo game dei tre set per chiudere un “periodico alto”, come li chiamava Tommasi: un triplice 6-4. Dopo il quasi ritirato Nieminen tocca a Bernard Tomic, che in teoria è uno di quelli che potrebbe dar fastidio a Nole. In teoria, perché il vero problema Nole lo affronta al turno successivo, quando Kevin Anderson trova una partita fantastica, si porta avanti per due set a zero e nel quinto ha due palle per andare avanti di un break. Sia concesso citarsi: “è stato bravo Djoko a giocare uno scambio molto sostenuto, sulla prima palla break, e poi un po’ troppo teso Anderson che sbagliava la risposta sulla seconda opportunità”. Passato quello spavento Nole non aveva più problemi, né in quella partita, né – sorprendentemente – nel torneo. Volteggiava prima su Cilic, poi su Gasquet, e infine infliggeva una dura lezione ad uno speranzoso Federer. Quel rovescio lungolinea cominciava ad allontanarsi.
Giusto il tempo di una vacanza, di un paio di sconfitte per rodarsi, ed era già tempo di New York. Misteriosamente Nole a New York aveva fin lì vinto una sola volta, e dopo aver seriamente rischiato di non essere neanche in finale. Però era riuscito a perdere con tutti i fab in finale, con Federer nel 2007, con Nadal nel 2010 e nel 2013, addirittura con Murray nel 2012. Djokovic vince 10 set di fila prima di incepparsi con Roberto Bautista Agut agli ottavi. Stavolta niente di serio, Nole non gioca benissimo, ma porta a casa il match senza particolari problemi. Il serbo si ripete contro Feliciano Lopez, ma di nuovo la differenza tra i due è troppo ampia perché le distrazioni di Nole possano creargli troppe difficoltà. E la semifinale con un Cilic non troppo in condizione è un mezzo massacro. Tocca di nuovo a Federer, nella serata della vergogna. Davanti ad un pubblico decisamente eccessivo, stavolta i due giocano un match di pura tensione, corredato da un’incredibile – considerato chi c’era in campo – serie di errori. Alla fine la spunta Djokovic, perché “contro una macchina da tennis di tale consistenza, nemmeno il miglior Roger Federer (figurarsi quello sottotono di stasera) può permettersi di sprecare così tante opportunità”.
Prima dell’Australia c’è tempo per le Finals, vinte concedendo persino un match al solito Federer, per poi sconfiggerlo senza appello in finale.
Ma è a Melbourne che si ricomincia. Djokovic ripete il curioso andamento degli slam precedenti. Vittorie a “scartamento ridotto” nei primi tre turni, e le improvvise pene agli ottavi di finale. Tocca stavolta a Gilles Simon dare delle speranze ai rivali di Djokovic. Il francese trova una partita tatticamente perfetta ma soprattutto trova Djokovic capace di fare qualcosa come 100 (cento!) unforced. Si va al quinto, Djokovic non rischia nulla ed esattamente come a Wimbledon prima distrugge il solito Nishikori da Slam, poi regala due set di imbarazzante dominio contro uno stupefatto Federer e infine regola Murray ancora una volta dopo essere uscito dai blocchi in modo spaventoso. Tre partite in cui sembra che Djokovic abbia adottato la stessa identica tattica contro avversari in ogni caso più deboli. Partenza a razzo, un’ora di gioco semplicemente irraggiungibile dai comuni mortali e poi il ritorno sulla terra, giocato però da una posizione di confortevole vantaggio.
Ma naturalmente quel rovescio, quei doppi falli, quell’ace, rischiavano di tornare appena messo piede in Bois du Bologne. Per la verità i fantasmi forse si intravedevano prima. Mano a mano si avvicinava quel rosso, Nole sembrava diventare più nervoso. Perdeva incredibilmente contro Vesely, vinceva a Madrid ma a Roma si lasciava scappare racchette e scagliava palline, l’incubo rischiava di tornare. Aveva voglia di dire “è un torneo, proverò a vincerlo”, mentre tutti attorno sembrava cercassero di capire in che modo l’incubo si sarebbe rimaterializzato. Però prima cadeva Federer, poi Wawrinka capitava dall’altra parte, infine Nadal si faceva male al polso. Djokovic si rifugiava nell’andamento più noto: pochi problemi nei primi tre turni e solita incertezza agli ottavi. Tocca di nuovo a Bautista Agut togliere il set a Nole, in uno sconcertante festival di break. Il resto, lo sapete benissimo. Prima Berdych e poi Thiem, distrutto da due set che forse non aveva mai visto dal campo, sono dei buoni allenamenti e poco più. Quel rovescio adesso è lontano, lontanissimo. Sparisce, quando Andy Murray tira il suo in mezzo alla rete.
Adesso Novak Djokovic, il detentore dei quattro slam, può ripensare a ben altri colpi: il dritto largo di Tsonga; quello in rete di Murray; il passante di rovescio largo e lungo di Nadal; i violentissimo dritti a sventaglio ancora contro Nadal (due volte di fila); il solito rovescio di Murray; quello di Federer; il passante in rete di Murray; i due dritti di Federer; l’ace a Murray. L’incubo è finito Novak. Sogni d’oro.